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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 68 - 1 Aprile 2010 | 0 commenti

Donne sull'orlo di una crisi economica.

Gli ultimi dati resi disponibili da Eurostat relativi ai mesi di gennaio e febbraio 2010 mostrano che il mercato del lavoro nella UE 27 comincia a registrare i primi lievi segnali di miglioramento dall'inizio della recessione, anche se non si può ancora parlare di vera e propria ripresa. Rimangono infatti forti elementi di instabilità, oltre che significative differenze territoriali, che hanno portato nuovamente al centro del dibattito la cosiddetta “questione di genere”.

Se è vero che nell'ultimo biennio i settori maggiormente colpiti dalla crisi sono stati quelli a prevalenza di manodopera maschile (manifatturiero, edile, trasporti fra tutti), portando ad una lieve riduzione del gap occupazionale di genere nei vari Stati membri, negli ultimi mesi la situazione sta cambiando. Basti vedere le rilevazioni statistiche che mostrano come, a partire dalla seconda metà del 2009, i tassi di disoccupazione femminile e maschile siano cresciuti – seppure in misura minore rispetto all'anno precedente – allo stesso ritmo, riflettendo l'espansione degli effetti della crisi ad altri settori maggiormente “femminilizzati”.

Esperienze passate dimostrano che in generale le donne riscontrano maggiori difficoltà ad essere reintegrate nel mercato del lavoro, soprattutto dopo i 50 anni. Se poi si aggiunge l'elevata incidenza fra le lavoratrici di contratti atipici e di lavoro part-time (nel 2008 il 23% delle donne con contratto part-time nella UE27 ha dichiarato di non riuscire, pur volendo, a passare a un contratto a tempo pieno), è facilmente comprensibile la situazione di maggiore precarietà. Precarietà che potrebbe essere risolta o attenuata solo da efficaci misure e politiche strutturali, che vanno da una regolamentazione in tema di salari (in Europa le donne oggi percepiscono in media il 18% in meno rispetto agli uomini a parità di mansione, ed in alcuni Stati il divario è addirittura maggiore), correttivi fiscali e previdenziali ad una maggiore offerta di servizi e misure per la conciliazione fra famiglia e lavoro. In generale le madri lavorano meno delle donne senza figli, mentre fra gli uomini si verifica la tendenza opposta, anche quando si considerano i padri single.

Questa forte incidenza della maternità/paternità sulle scelte lavorative dipende certamente da fattori culturali, principalmente legati alla suddivisione dei ruoli tradizionali fra uomini e donne, ma anche alla carenza di strutture di accoglienza per l'infanzia e più in generale di assistenza. Nelle strategie di rilancio delle economie nazionali si sta registrando però una più o meno marcata tendenza a ridurre o posticipare tali misure in favore di altre considerate risposte più efficaci al rallentamento dell'attività produttiva. Questo quanto emerge dall'annuale rapporto della Commissione Europea presentato al Consiglio di primavera sui progressi compiuti nei vari Stati membri per la promozione delle pari opportunità.

La lotta contro le discriminazioni che le donne si trovano ad affrontare nel mercato del lavoro è una sfida di lunga data, oggi da ripensare anche alla luce dei notevoli cambiamenti socio-economici degli ultimi due anni. Alcuni settori produttivi hanno visto (e vedranno) profonde modifiche sia in termini di struttura produttiva che di organizzazione del lavoro i cui effetti ricadranno in primis sulle scelte occupazionali. E mentre fino ad oggi il perseguimento della parità di genere era prevalentemente giustificato da ragioni di equità sociale, gli studi e gli interventi più recenti puntano su ragioni di mera efficienza economica. Politiche di genere e di pari opportunità diventano insomma strumenti essenziali per la crescita, la prosperità e la competitività. Lo sosteneva anche l'Ocse che in un rapporto pubblicato nel 2008 associava il mancato sfruttamento del potenziale produttivo femminile a un fallimento del mercato. In altre parole uno spreco di risorse.

Ancora più recentemente riprende questi temi Asa Lofstrom nello studio Gender equality, economic growth and employment, commissionato dal Ministero per le Pari Opportunità svedese. In questo studio viene stimato l'impatto sulla crescita del Pil derivante dal raggiungimento della parità di genere (definita come situazione in cui si registrano uguali tassi di partecipazione al mercato del lavoro fra uomini e donne, riduzione dell'incidenza del part-time fra le donne e pari retribuzioni orarie). L'impatto risulta diverso a seconda dei paesi europei, ma sempre positivo. Una maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro potrebbe potenzialmente fare crescere il Pil europeo di circa il 30%, con variazioni che vanno dal 14% in Slovenia a più del 40% in Germania, Malta e Olanda. Tra i fattori che influenzano in misura più significativa la crescita del Pil vi sono i maggiori tassi di partecipazione femminile, confermando nuovamente l'importanza del capitale umano e produttivo femminile e soprattutto la necessità di considerare le politiche per la parità di genere investimenti a lungo termine, e non costi di breve termine.

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