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Scritto da nel Internazionale, Numero 68 - 1 Aprile 2010 | 0 commenti

Eppur non si muove: il lavoro delle donne in Italia

'Equilibrio di genere', 'alti tassi di occupazione femminile' rientrano nella categoria di quegli imperativi categorici gonfiabili, costruiti su una concreta base di realtà e una generosa innaffiata di retorica, oscillante a seconda del periodo e dell'opportunità. Un po' come il riscaldamento climatico, lo scontro di civiltà e la democrazia in Iraq. Le disparità di genere sul mercato e nel posto di lavoro in Italia sono fatti incontrovertibili sin da quando esistono documenti per tracciarne i contorni. E' l'interpretazione del contributo femminile al lavoro nel Paese ad essere cambiata nel tempo: dall'esclusione delle donne come metodo di pianificata delimitazione della forza lavoro (ufficiale) e di divisione dei compiti sociali attraverso la distinzione di genere; alla disperata forzatura del lavoro per tutti ad ogni costo al fine di rincorrere la spontanea occupazione femminile di massa ed assicurare la sostenibilità dei sistemi di sicurezza sociale.

Ciò non comporta affatto una traiettoria lineare di evoluzione culturale del Paese, come peraltro nulla di netto avviene in Italia. Soprattutto, sono gli attori sociali e politici a non avere mai abbracciato con convinzione e coerenza l'obbiettivo di garantire alle donne le condizioni materiali per scegliere se perseguire una carriera lavorativa, senza per questo dover sacrificare il naturale evento della maternità. Parliamo solo della maternità come in tutti i Paesi europei, senza dimenticare il ruolo variamente assunto dalla o imposto alla donna in Italia come perno della famiglia, dalla cura dei bambini fino in tarda età (circa 30 anni), all'assistenza ai nonni. In mancanza di servizi pubblici – afferma la sociologa Chiara Saraceno -, la famiglia è da sempre l'ammortizzatore sociale per eccellenza in Italia. Il lavoro domestico è l'unico impiego garantito alle donne a tempo pieno ed indeterminato: solo non è pagato, ed è proprio questa la sua convenienza sociale.

Dal secondo dopoguerra, i Paesi occidentali hanno imboccato vie altamente diverse nell'occupazione femminile. Quelli Nordici hanno sviluppato strumenti progressivamente più sofisticati per imporre alla 'spontaneità' del mercato l'eguaglianza di genere del lavoro: cardini del sistema sono stati il lavoro part-time, forti leggi anti-discriminatorie nelle assunzioni, la femminilizzazione dell'impiego pubblico, congedi di maternità da dividere flessibilmente con i padri, e una vasta rete di servizi pubblici accessibili per tutti, dagli asili nido alla scuola a tempo pieno, alle case di cura per anziani. In poche parole, la collettività si è assunta i costi (alti) della rimozione di tutti gli ostacoli che naturalmente o socialmente disincentivano la donna al lavoro: non esiste obbligo di occupazione, ma la possibilità di libera scelta è garantita al soggetto più debole. Evidentemente funziona.

Inutile dire che i Paesi Mediterranei si pongono sul modello diametralmente opposto. L'Italia ha regolato ufficialmente il part-time per la prima volta nel 1984 e ha garantito maggiore elasticità nel passaggio dal tempo pieno a quello ridotto solo nel 1997. Nel 2008, il part-time garantiva una fonte di impiego e reddito al 72% delle donne olandesi, al 45% di quelle tedesche e al 28% delle italiane. L'impiego pubblico - con orari generalmente ridotti rispetto al privato – soltanto negli anni '90 ha sfondato la soglia del 50% di donne, peraltro tradizionalmente accentrate nella scuola e negli enti locali e solo in minoranza in ruoli dirigenziali. Nella consapevolezza che gli asili nido costituiscono una tradizionale piaga delle principali città italiane, mentre la scuola elementare funziona in gran parte solo alla mattina, si capisce dove stiano i limiti concreti alla possibilità di esercitare una professione a tempo pieno per una madre lavoratrice. Il risultato più eclatante è che circa solo metà delle donne italiane in età lavorativa hanno un lavoro retribuito nel 2008: i livelli oltre il 60% dei Paesi dalla Francia in su la dice lunga sugli effetti di tali limiti.

Insomma, la sostanza dell'imperativo di 'riconciliazione tra lavoro e famiglia' che imperversa nelle politiche e nelle linee di finanziamento Europee si applica soprattutto al nostro Paese, perché proprio in casa si annida il blocco principale al libero dispiego della volontà delle donne di scegliere la famiglia e non di farsi scegliere, per parafrasare De André. Rimane la domanda del perché in Italia non si sia mai prodotta, soprattutto sulla spinta del mitico '68, una coalizione di forze capaci di imporre scelte politiche nette.

La risposta è meno immediata di quanto sembri. Certo, la predominante cultura cattolica della famiglia non solo si è opposta tenacemente al trasferimento allo Stato di funzioni come l'educazione o i servizi di cui la Chiesa è primaria dispensatrice, ma ha anche impregnato le scelte familiari e delle donne stesse nel stare lontano dal lavoro. Bisogna anche notare che il Paese è rimasto nettamente spaccato in due tra un Nord che con lo sviluppo del settore terziario ha raggiunto livelli di occupazione femminile sostanzialmente Europei e un Sud che già dispone generalmente di scarso lavoro ufficiale e quei pochi posti sono primariamente appannaggio del capofamiglia maschio a vantaggio dell'intera famiglia. Infine, la cultura sindacale di stampo operaista ha fatto spallucce a politiche positivamente discriminatorie a favore della donna: poiché le donne raramente lavoravano nell'industria pesante, principale bacino di militanza, la mobilitazione degli anni '60 e '70 rimase essenzialmente indifferente alle domande specifiche delle (poche) sindacaliste. Di conseguenza, nemmeno i partiti politici di sinistra hanno contribuito ad inserire tematiche femminili nell'agenda politica, se non sporadicamente, localmente (a Bologna, isola felice dei servizi all'infanzia) e con uno sforzo finanziario sempre limitato.

Insomma, la garanzia della libertà di scelta è tutt'altro che un movimento spontaneo del mercato e tantomeno della società. Anzi, in assenza di regole chiare, il mercato crea fenomeni discriminatori ancora più profondi come le differenze nel salario tra uomini e donne per lo stesso lavoro: poiché pare che quell'inconveniente dell'assenza per maternità, che l'imprenditore è obbligato a pagare, capiti con una certa frequenza, si tende a considerare le donne 'forza lavoro debole', poco redditizia e dunque meritevole di minore paga. E' indubbio che politiche attive di promozione costino e implichino scelte valoriali: più che una questione di femminismo o razionalità economica, le pari opportu
nità coinvolgono diritti di cittadinanza
.

Queste scelte politiche poggiano su assetti sociali ed economici concreti ed è questo il lato costantemente trascurato rispetto alla tensione ideale: la disponibilità effettiva di posti di lavoro è prioritaria rispetto alla loro distribuzione e condizionano anche il ruolo della famiglia come compensazione nella tenuta del tessuto sociale. In parole povere, il lavoro femminile è cresciuto in epoca di boom e piena occupazione: in un momento di recessione, probabilmente permanente, potremo permetterci la stessa distribuzione delle attività economiche, tra le e all'interno delle famiglie? E poi l'afflusso sempre più consistente di immigrati provenienti da Paesi con modelli culturali verso donne e famiglia non certo di tipo scandinavo garantirà un sostegno politico a politiche di parità? Non saranno anche alcuni gruppi di donne stesse a scegliere volontariamente la famiglia come luogo della propria realizzazione personale, come l'altra faccia della libertà di scelta?

Nessuna delle parole d'ordine del nostro tempo si può permettere un'astrazione ideale dalla concretezza delle condizioni materiali su cui poggiano i valori: ieri come oggi come domani, la libertà di scegliere lavoro o famiglia, lavoro e famiglia, e di ottenere condizioni giuste sul posto di lavoro per le donne dovranno essere difese con la caparbietà individuale e con la mobilitazione politica. Che la storia non sia una poderosa cavalcata verso un inevitabile progresso, ormai è purtroppo chiaro da un bel po'.

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