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Scritto da nel Media e Cultura, Numero 68 - 1 Aprile 2010 | 2 commenti

La stampa e la violenza di genere: rappresentazioni, stereotipi e falsi miti

Nel 1999 la Corte di Cassazione emanò una sentenza che scagionava dalle accuse di stupro un istruttore di scuola guida accusato di aver violentato una sua allieva. La motivazione data dai giudici fu: la ragazza indossava i jeans, indumento che l'uomo non avrebbe potuto sfilare senza la collaborazione della donna. L'opinione pubblica restò scandalizzata da tali affermazioni; l'indignazione fu possibile soprattutto grazie al ruolo che la stampa giocò nel criticare e ridicolizzare una sentenza maschilista, al limite del grottesco, se non fosse stato per la gravità del crimine. All'epoca la Corte era composta da 410 giudici uomini e solamente 10 giudici donne. La sentenza fece scalpore e il dibattito sulla possibilità o meno di utilizzare i jeans come cintura di castità e arma di difesa dallo stupro animò per settimane il mondo mediatico.
Da quella sentenza tristemente famosa sono passati più di dieci anni, oggi la violenza sessuale viene raccontata molto più di frequente dalla stampa. Parte del merito di questa maggiore attenzione dedicata alla violenza di genere va di certo attribuito al maggior numero di denunce degli ultimi anni, nonostante il “numero oscuro”, ovvero la quantità di violenze non denunciate, si aggiri ancora intorno al 90%. Esiste, però, un altro lato della medaglia. Nell'ultimo decennio il binomio violenza sessuale-immigrazione è andato consolidandosi sempre più e il numero degli articoli dedicati alle violenze di genere è cresciuto di pari passo con il numero degli immigrati, tanto da far quasi credere che i due fenomeni siano inevitabilmente e indissolubilmente collegati. Basti pensare che, nonostate il numero degli stupratori stranieri dal 1999 al 2008 non abbia mai superato quello degli stupratori italiani, solo nel 1999 e nel 2002 le due testate giornalistiche principali italiane, Il Corriere della Sera e La Repubblica, hanno dedicato un numero di articoli maggiore alle violenze commesse dagli stupratori italiani rispetto agli articoli dedicati agli stupri commessi da stupratori stranieri. Negli anni, inoltre, il divario è andato aumentando in maniera esponenziale, arrivando così ad alterare totalmente la percezione di quelli che sono i dati reali riguardanti la violenza sessuale. È doveroso specificare che quando si parla di stupratori stranieri, in questo caso, si intendono immigrati provenienti da paesi poveri. Se si considerano i casi di violenza di genere ai danni di donne maggiorenni, infatti, nell'ultimo decennio la stampa nazionale ha dedicato il 59% degli articoli a casi di stupro commessi da parte di cittadini stranieri (il 45% dei quali provenienti da Romania, Albania, Marocco, Algeria ed Ecuador) e solo il 41% ai casi di violenze commessi da cittadini italiani. Il dato diventa sconcertante se si pensa che secondo le statistiche il numero di italiani che commettono abusi sessuali supera di gran lunga quello degli stranieri.
Ma la stampa non si è limitata in questi anni ad alterare la percezione di chi commette lo stupro dal punto di vista della nazionalità. Un altro dato preoccupante è l'attenzione morbosa riservata dalle testate giornalistiche ai casi di stupro commessi da estranei ai danni di donne sconosciute incontrate in bar, discoteteche oppure per strada. Le statistiche ci dicono che solo il 6,2% delle violenze avviene da parte di stupratori sconosciuti alla donna. In tutti gli altri casi il perpetratore della violenza è un conoscente, molto spesso il partner stesso. Nonostante ciò, Il Corriere della Sera e La Repubblica hanno dedicato solo il 42% dei loro articoli a questa tipologia di violenza, ovvero meno della metà. La violenza domestica, la tipologia di violenza di genere più diffusa ma anche quella meno conosciuta e denunciata, diventa quasi invisibile attraverso la stampa che non riesce a fornire in maniera realistica le dimensioni del fenomeno.
Questa discrepanza esistente tra le statistiche sulla violenza di genere e i dati emersi da un'analisi condotta sulle due maggiori testate nazioniali appare ancora più preoccupante alla luce del fatto che la stampa è dotata di un enorme potere di persuasione e che gioca un ruolo fondamentale nel creare consensi, nel raccontare la realtà e al tempo stesso nel definirla. Partendo da questi presupposti non è difficile capire in che modo la percezione della violenza sessuale in questi anni sia stata totalmente alterata da informazioni che non sempre rispecchiano la realtà dei fatti, bensì sono dettate da imperativi economici e da una scarsa consapevolezza dell'impatto a lungo termine che un certo tipo di linguaggio sensazionalistico può avere sulle masse.
La stampa, attraverso la selezione dei contenuti e tramite il linguaggio discriminatorio e stereotipato che utilizza, diventa veicolo di discriminazione, non solo razziale ma anche di genere e, allo stesso tempo, strumento di riproduzione e rafforzamento dei miti che da sempre circondano lo stupro. I media, infatti, non si limitano solo ad alterare i dati (e dunque la percezione) su quelli che sono i perpetratori della violenza, ma anche sulle donne che la subiscono. La violenza di genere, infatti, viene incanalata dalla stampa in tre grandi filoni narrativi, ormai consolidati. Quando a commettere la violenza è un cittadino straniero proveniente da un paese povero, questo viene rappresentato come un “mostro”, la “bestia” sottosviluppata e arretrata. La sua vittima non può che essere una donna virtuosa (di solito italiana, sposata e non giovanissima) che non ha fatto nulla per provocare la violenza. Quando lo stupratore non rientra nella categoria “mostro”, la stampa cerca il capro espiatorio altrove e precisamente nella donna, che, a questo punto, non è più la vittima “ideale” al di sopra di ogni sospetto, ma diventa a sua volta imputata. È lei ad essere messa sotto processo, a dover dimostrare di non aver fatto nulla per provocare la violenza. In particolare, verranno messi sotto accusa il suo modo di vestire, di comportarsi, il suo background sociale, le motivazioni che l'hanno fatta trovare in un determinato posto, in determinato momento. La stampa, infatti, cade molto spesso vittima (in maniera più o meno consapevole) di stereotipi e in tal modo contribuisce a rafforzarli. Invece di sottolineare che la violenza di genere non è mai giustificata, né esistono attenuanti ad essa, i giornali non fanno che avallare una mentalità maschilista e misogina diffusa a tutti i livelli della società ed in tutte le società.
Un ulteriore filone narrativo utilizzato dalla stampa per incanalare la violenza di genere è quello delle false accuse di stupro. Quando lo stupratore è considerato un uomo “rispettabile”, con una certa posizione sociale e la vittima mostra qualche indecisione nel suo racconto oppure non ha abbastanza “prove” per dimostrare la sua innocenza, la sua versione viene messa in dubbio, analizzata nel dettaglio per trovare la contraddizione e le motivazioni che l'avrebbero spinta a mentire (vendetta, gelosia, desiderio di attirare attenzioni).
È evidente che troppo spesso la stampa dimentica di sottolineare quali sono le motivazioni reali che stanno alla base di questo crimine. Quando i giornali, invece di sottolineare quanto sia difficile denunciare un abuso, raccontano di come una donna utilizzi questa “arma” anche con una certa facilità e disinvoltura per una fantomatica vendetta; quando la stampa si sofferma sulla violenza che avviene per strada e dimentica i dati sconcertanti sulla violenza domestica; quando la stampa dà consigli alle donne su come vestirsi, comportarsi, a che ora (non) andare in giro da sole e suoi i luoghi da evitare, invece di sottolineare l'importanza della sensibilizzazione maschile al fenomeno perché lo stupro è anche un problema maschile, nel senso che sono gli uomini a commetterlo; quando la stampa insinua che una donna possa aver in qualche modo contribuito alla violenza “andandosela a cercare”, la stampa diventa complice, complice della cultura maschilista e misogina dominante. La stampa si rende complice della diffusione di una cultura della paura atta a limitare ampiamente la libertà delle donne e lo spettro di azioni ritenute appropriate e accettabili per loro, mantenendo così il controllo maschile. I giornali non considerano mai, infatti, la violenza di genere in quanto fenomeno unico e diffuso, bensì trattano i singoli casi come separati, ognuno dei quali con diverse cause scatenanti. In alcuni casi è la vittima promiscua e provocante ad aver innescato il meccanismo di reazione in un uomo-animale incapace di controllare i suoi istinti, in altri casi è lo stupratore che, provenendo da un paese in cui le donne sono visibilmente sottomesse, ha violato una donna virtuosa e innocente. Mai la misoginia, la volontà di sottomettere, di umiliare e affermare il proprio potere vengono chiamate in causa come le ragioni che stanno alla base di questo crimine.
La stampa ha l'enorme potere di definire il cosiddetto “senso comune”, ovvero ciò che tutti pensano, ciò che finisce con l'apparire naturale, ovvio, inevitabile (come ad esempio il fatto che una minigonna possa scatenare uno stupro o che non bisogna stupirsi più di tanto se una donna ubriaca che va in giro da sola in piena notte viene stuprata). In considerazione di tale potere coloro che “fanno la stampa” dovrebbero utilizzarlo in maniera più responsabile, raccontando la violenza sessuale per quella che è, ovvero un fenomeno dilagante, senza confini geografici e/o culturali; bisognerebbe che la stampa iniziasse a diffondere degli stereotipi positivi piuttosto che biasimare in maniera più o meno velata le vittime, contribuendo, così, passo dopo passo, a fafforzare i miti sullo stupro, che, a loro volta, stanno dietro sentenze come quella dei jeans.

2 Commenti

  1. Un ottimo articolo!
    Non posso che concordare in ogni sua parte. Ci tengo a sottolineare il mio sdegno nei confronti di una stampa che – ahimè! – è in questo caso reale specchio di una società maschilista, in cui la donna vittima di violenza spesso è addirittura costretta alla vergogna e all'avvilimento personale, costretta com'è a giustificare cause superficiali e fasulle che avrebbero portato l'uomo a infastidirla. Nonostante un'idea del genere, se vista per iscritto, del genere si riveli ancor più in tutta la sua assurdità, questa è purtroppo la mentalità dominante. Sia tra gli uomini che tra le donne!
    Trovo assurdo che la stampa e i media in genere non usino il proprio potere persuasivo per smatellare un modo di pensare sbagliato, ingiusto e stolto, bensì continuino imperterriti ad avallarlo e diffonderlo. È una vergogna!
    Le donne vittime di violenza dovrebbero essere solo aiutate a ritrovare dignità e sicurezza; un atteggiamento positivo potrebbe di fatti anche aiutare le vittime più riluttanti a trovare la forza di denunciare i fatti accaduti.

    I miei complimenti alla giornalista Tranchese.

  2. Una volta ho letto non so dove (forse Germaine Greer) che il mito della donna che non dovrebbe uscire da sola di notte perché è pericoloso eccetera eccetera è una sciocchezza, perché statisticamente sono soprattutto e in grandissima percentuale solo gli uomini a essere coinvolti in risse, incidenti e omicidi. Insomma si sottolineava come la “sicurezza” domestica contrapposta alla “violenza” nelle strade spingesse, di fatto, la donna ad essere sempre più relegata e chiusa proprio in quelle realtà domestiche che sono invece il teatro più frequente di abusi fisici, sessuali e psicologi.

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