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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 68 - 1 Aprile 2010 | 0 commenti

L'uomo non “porta” più la donna, ma è ancora leader

In pochi si saranno accorti che nel ballo popolare sempre più difficilmente l'uomo riesce ad avere capacità di guidare la dama e che molto spesso negli ultimi tempi è la donna a portare il proprio partner. Non è certamente un cambiamento legato a strani motivi di praticità, ma la discussione su tale fenomeno rischia oggi di polarizzarsi tra chi proclama un indebolimento del ruolo maschile nella famiglia e nella società odierna (le donne finiscono sempre per accollarsi tutte le responsabilità legate alla casa, ai figli, al lavoro, alle decisioni di spesa e di investimento) e chi, invece, con un'aria di rivincita, invoca il ritorno a un neomatriarcato post-moderno (le donne hanno un livello di istruzione superiore, sono indipendenti finanziariamente e crescono i propri figli da sole).

Solo apparentemente sembrerebbe che i recenti proclami, in alcuni casi forzosi e in altre inevitabili, sulle quote rosa e sulla discriminazioni positive stiano cedendo il passo a dei cambi di mentalità riscontrabili sulle trasformazioni della struttura del mercato del lavoro e dell'organizzazione della famiglia. Piuttosto, invece, è più facile osservare come a tali cambiamenti, che favorirebbero un maggiore ingresso delle donne nella vita politica ed economica, non ci sia stato un adeguato cambio culturale radicale per eliminare alcune incomprensibili ingiustizie di fondo sostanziali.

In primo luogo, se da un lato risulta evidente che la percentuale del reddito familiare portato a casa dalle donne è in crescita da anni e che le donne stanno superando gli uomini quanto a livello di istruzione (da tre anni più donne che uomini ottengono titoli di studio superiore, universitario e post-universitario), di uso della tecnologia e di apertura culturale (il ritmo di crescita nell'utilizzo del computer e nella fruizione di beni culturali è più forte nelle donne), dall'altro lato si riscontra in tutti i mercati del lavoro una differenza salariale tra uomini e donne non più giustificabile sul piano economico e non rimandabile sul piano morale. Il parametro di riferimento per determinare un livello di retribuzione dovrebbe essere il tasso di produttività, ammesso che si abbiano gli strumenti e le capacità per misurarlo correttamente nei “nuovi” lavori. In un'economia basata sulla produzione di beni materiali, le abilità fisiche hanno giustificato nei decenni passati un differenziale di salario tra uomini e donne. Ma in questa epoca post-fordista, dove la conoscenza e la creatività contano più del capitale accumulato, la differenza di produttività quanto meno dovrebbe essersi livellata, se non sbilanciata a favore delle donne. Riscontrare nella realtà delle difficili assunzioni prima di una prevedibile maternità o registrare dei dati statistici a conferma di un anacronistico gender gap nei livelli di retribuzione risulta ingiusto e poco lungimirante.

In secondo luogo, se è noto ai più come le donne controllino fino ai due terzi della spesa complessiva della famiglia risulta incomprensibile come mai le imprese riversino sul mercato dei prodotti pensati per i bisogni degli uomini o, comunque, disegnati per profili di rischio più adatti agli uomini, creando così uno scollamento latente tra l'offerta di prodotti e servizi e la domanda dei maggiori d'acquisto e un livello di spesa effettivo inferiore a quella che le donne avrebbero in gran parte contribuito potenzialmente a registrare. L'attenzione al design, alla semplicità d'uso, alla cura dei dettagli e alla immediata comparazione dei prezzi con altri prodotti affini sembrerebbero delle richieste provenienti dalle donne consumatrici. E invece – ad eccezione del mondo Apple, tipico marchio female-friendly – la maggior parte dell'offerta dei prodotti e servizi sul mercato sono oggi time-consuming e con i prezzi o tariffe non facilmente comparabili. Lo stesso esercizio può essere utile farlo anche passando al segmento dei prodotti di risparmio e dei servizi di cura, dove è evidente la distanza tra la domanda (potenziale) e l'offerta (effettiva) e l'incapacità delle imprese di connettersi con le nuove consumatrici.

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