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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 68 - 1 Aprile 2010 | 0 commenti

Pari opportunità e pari responsabilità: necessità e sfida

In ambito economico è ormai opinione condivisa che le donne rappresentino una risorsa fondamentale per la crescita e lo sviluppo economico. La cosiddetta Womeneconomics1 sostiene che una maggiore integrazione delle donne nel mercato del lavoro sia giustificata non solo da motivi di equità ma anche di efficienza economica. Se da un lato le ricerche macroeconomiche mostrano una correlazione positiva tra occupazione femminile e crescita, dall'altro l'analisi microeconomica rivela anche una maggiore produttività sul lavoro dei gruppi misti rispetto a quelli composti solo da donne o uomini. Questi risultati dovrebbero far riflettere, soprattutto in questo momento storico, caratterizzato dal persistere degli effetti della crisi economica e dalla necessità di trovarne possibili via d'uscita, e soprattutto in un paese come l'Italia, caratterizzato da una bassa – o quasi nulla – crescita economica e da una condizione femminile in termini di mercato del lavoro tra le peggiori nei paesi sviluppati. L'Italia è, infatti, tra i paesi ad alto reddito quello che utilizza al minimo il potenziale di sviluppo legato al lavoro femminile e che quindi avrebbe più da guadagnare innalzandone i livelli occupazionali. L'implementazione di tale strategia rappresenta una buona soluzione ad alcune urgenti questioni economiche e sociali: la scarsa occupazione e produttività generale, la carenza di figure professionali qualificate (i tassi di istruzione femminile sono mediamente più alti di quelli maschili ed il conseguimento del titolo avviene in tempi più brevi), l'invecchiamento della popolazione e la sostenibilità previdenziale (statistiche europee ed OCSE mostrano infatti che nei paesi con più alta partecipazione femminile – grazie anche a politiche attive di conciliazione – si fanno più figli).

Solo alcuni dati, per rendere empiricamente rilevante il problema. Secondo i dati Istat 2009 il tasso di partecipazione femminile è fermo al 46% (ben lontano dal 60% previsto dal trattato di Lisbona). Il Global Gender Gap Report 20092 vede l'Italia scendere al settataduesimo posto, peggiorando la sua situazione rispetto agli anni precedenti. Dopo Malta, L'Italia ha la più alta percentuale di donne che non cercano un lavoro, scelta dettata principalmente dalle necessità domestiche e di cura dei famigliari (specialmente bambini ed anziani). Da notare, secondo dati Istat, oltre una donna occupata su cinque lascia il lavoro dopo la nascita di un figlio.

La situazione per le donne italiane non è certo rosea ed è necessario pensare rapidamente e concretamente ad una soluzione. Così come il dibattito attualmente in corso tra gli economisti del lavoro italiani3 suggerisce, diverse possono essere le modalità d'azione. Da un lato vi è chi ritiene4 che una minore tassazione del lavoro femminile rispetto a quello maschile potrebbe essere utile per indurre le famiglie italiane ad allocare diversamente il carico lavorativo intra ed extra domestico. Dall'altro vi è chi sostiene5 fortemente la necessità di servizi sociali alle famiglie, quali asili nido, scuole dell'infanzia, assistenza agli anziani. Una maggiore disponibilità (e qualità) di servizi per la prima infanzia è associata ad una maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro ed ad un maggiore tasso di natalità (vedi il caso dell'Emilia-Romagna). Indipendentemente da quale sia la filosofia che si vuole seguire (più market oriented o più welfare state oriented) per la definizione delle politiche a favore della partecipazione femminile, credo che i cambiamenti istituzionali debbano essere accompagnati da un'evoluzione culturale nel nostro paese, prima di tutto a livello famigliare, in termini di una più equa ripartizione del lavoro domestico e, conseguentemente a livello d'impresa, con l'eliminazione di stereotipi e di discriminazioni di genere, incluse le disparità retributive, in gran parte dovute al diverso ruolo che la donna ha nella struttura famigliare italiana.

In Italia le donne lavorano, in media, 80 minuti al giorno in più degli uomini (sommando lavoro domestico e lavoro retribuito). Un confronto tra nazioni6 ha evidenziato due aspetti interessanti: l'Italia è uno dei paesi con il più alto valore dell'indice di gender inequality relativo alla ripartizione del lavoro domestico e retribuito; l'Italia è l'unico paese in cui le donne lavorano totalmente più degli uomini, sebbene esse spendano meno tempo in attività di mercato. Per avere un quadro generale, tali evidenze vanno lette assieme alla comune prassi, secondo cui, anche a fronte di una maggiore disponibilità di servizi di sostegno alla famiglia, è la donna ad essere in primo luogo chiamata in causa per la maggior parte delle esigenze famigliari, che essa abbia o meno un lavoro retribuito. Per quanti asili nido ci siano, essi chiudono alle 16 e se il bambino è malato una soluzione alternativa va comunque trovata. E' una questione di tempi e di dispendio di energie non solo fisiche ma anche mentali. Fino a che questi compiti non saranno equamente distribuiti fra uomini e donne sarà necessariamente vero che, a meno di essere dotate di super poteri, le donne non potranno certo spendere le stesse energie ed avere la stessa produttività nel lavoro degli uomini. E a chi sostiene la necessità di perseverare in questa diseguaglianza, sostenendo che il bambino per il soddisfacimento dei propri bisogni primari, psichici ed emotivi ha soprattutto bisogno della madre, rispondo che un bambino necessita essenzialmente di cura, tempo ed attenzione, “beni” che non mi pare abbiano una connotazione di genere7.

Ritengo, perciò, che un cambiamento di mentalità sia necessario. Questo è certamente frutto di una evoluzione personale degli individui, ma può essere sostenuta anche dalla trasformazione delle politiche di conciliazione – quali part-time e congedi di genitorialità- che possono diventare più gender neutral, così come è stato fatto in paesi quali Francia e paesi scandinavi, dove le politiche pubbliche sostengono parimenti entrambi i genitori (i congedi parentali non troppo lunghi possono essere fruiti da entrambi i genitori così come i part-time, è stato introdotto il telelavoro, così come altri servizi per entrambi i genitori). Inoltre è necessario cambiare la cultura aziendale, che vede il lavoro e le possibilità di carriera impostate su tempi e modalità di lavoro maschili, anche se la presenza delle donne è molto elevata. Per avere un'elevata produttività è davvero necessario lavorare dalle 8 alle 12 ore al giorno? Un periodo, anche limitato, di lavoro part-time, che aiuta a conciliare lavoro e famiglia soprattutto in certi momenti della vita, rende necessariamente il lavoratore meno qualificato e meno atto a progredire nel lavoro di chi lavora continuativamente full time?

1 A. Wittemberg-Cox e A. MAitland, “Rivoluzione Womenecnomics”, Il Sole 24ore, 2010. C.Shipman e K. Kay, “Womeneconmics”, Cairo, 2010

2 www.weforum.org

3 Vedi dibattito su www.lavoce.info.it

4 Vedi A.Alesina, A.Ichino e L. Karabarbounis, “Gender Based Taxation and the DIvision of Family Chores”, 2009

5 D. Del Boca e A. Rosina, “Famiglie Sole”, Il Mulino 2009

6 M.C. Burda, D.S. Hammermesh, P. Weill, “The distribution of total work in the EU and US”, 2006; IZA discussion papers series n. 2270

7 Ultima considerazione, del tutto personale: forse un bambino beneficia di più di una madre che lavora ma condivide le responsabilità domestiche, potendo quindi dedicare una parte più consistente (e di maggiore qualità) del tempo che spende a casa alla relazione con lui piuttosto che una madre che non lavora nel mercato – forse anche per una scelta non totalmente libera – ma che è continuamente presa dai mille impegni domestici e che gli sta vicino per la maggior parte del tempo ma facendo altro.

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