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Scritto da nel Numero 71 - 1 Luglio 2010, Politica | 0 commenti

Il popolo e il senso di comunità

Si ha l'impressione che il sistema economico vigente possa crollare da un momento all'altro. È persino divertente ammirare i governanti annunciare una settimana sì e una no l'imminente «uscita definitiva dalla crisi». Un po' più complicato è seguire le rinnovate ricette consigliate ai governi dai vari specialisti per «dare fiato all'economia» e «far quadrare i conti».

Da profani, pare che la chiave stia nel consumare di più. Il fine è aumentare la domanda di beni e quindi incrementare la produzione per creare nuovi posti di lavoro. Così all'infinito. Non importa che l'uomo stia già divorando l'equivalente di risorse di un pianeta grande 1,3 volte la Terra.
Sull'attuale sistema produttivo agricolo mondiale, fanno riflettere alcuni dati, che ogni tanto si possono ascoltare tra le ultime notizie dei telegiornali o leggere in terza pagina sui quotidiani.

Si produce cibo per 12 miliardi di persone mentre siamo 7 miliardi. Nonostante ciò, un miliardo soffre la fame e più di un miliardo invece ha problemi legati alla sovralimentazione, diabete ed obesità (Carlo Petrini). Un'ulteriore contraddizione è rappresentata dal fatto che per far fronte alla crescita della popolazione (90 milioni di nascite in più ogni anno) e agli effetti dei cambiamenti climatici, la produzione agricola globale dovrà raddoppiare entro il 2050; pena l'acuirsi di una crisi alimentare già attualmente inaccettabile (Financial times). Nel frattempo, due terzi dei cereali prodotti al mondo vengono utilizzati per nutrire bestiame d'allevamento.
Ancora, un fenomeno in voga negli ultimi anni è il cosiddetto «farmland grabbing» ossia l'acquisto di terre agricole all'estero, soprattutto in Africa e Asia, da parte di stati ricchi per avviare coltivazioni intensive al fine di soddisfare la domanda interna di derrate alimentari. Tra i più attivi negli «investimenti agricoli internazionali» ci sono il Giappone, la Corea del Sud e l'Arabia Saudita (Il manifesto). Non occorre qui spiegare come queste operazioni taglino le gambe all'agricoltura locale dei Paesi più poveri che vendono le loro terre.

Questi pochi dati sono agghiaccianti, letti dal nostro comodo mondo. Nulla fa pensare che si riuscirà a correggerli in meglio. I vari G8 e G20 non riescono a trovare soluzioni a problemi più semplici ed è evidente l'incapacità di risolvere i macro problemi (povertà, disoccupazione, distruzione del pianeta a 360 gradi) da parte della politica a livello mondiale, continentale, nazionale e regionale.

Allora, deve essere il popolo, inteso nel senso più «ristretto» di abitanti di un territorio considerati unitariamente (Enciclopedia Treccani), a muoversi per riscoprire il senso di comunità, perso nell'era della globalizzazione e del profitto ad ogni costo, spesso a scapito del prossimo. Innanzitutto per quel che riguarda l'agricoltura. Esistono già numerose cooperative biologiche che permettono l'acquisto dei prodotti agricoli direttamente dal produttore, evitando così tutte le distorsioni (di qualità, prezzo e impatto ambientale) imposte dalla grande distribuzione.

I rappresentanti amministrativi del popolo potrebbero dar vita ad un sistema commerciale territoriale che dia vigore a tutti i settori dell'economia locale. Partendo dall'organizzazione di una vendita diretta dal produttore al consumatore di frutta, verdura, legumi, latte, carne, uova, olio, vino… modificando via via l'offerta in virtù della domanda, si potrebbe fare lo stesso, per quel che possibile, nei campi dell'artigianato, industriale ed energetico.

Per il popolo ritrovare il senso di comunità significa rendersi consapevole della propria forza e della propria capacità di autodeterminazione. Vuole dire, ad esempio, gestire autonomamente l'acqua impedendo che vada nelle mani dei privati e ottimizzarne l'uso attraverso eventuali riparazioni alla rete idrica affinché si eliminino gli sprechi e si renda più buona e pulita di quella venduta in bottiglia. Implica promuovere la vita sociale, politica e culturale in maniera collettiva rompendo l'ipnosi della televisione e dei cosiddetti social network. Ed organizzare un sistema di riciclo di rifiuti efficiente. E proteggere l'ambiente…
Non si tratta di un incitamento all'autarchia. Piuttosto di un tentativo di connettere nuovamente il popolo al suo territorio, per riscoprire il legame materiale e finanche spirituale che lega l'uomo alla propria Terra. Vivere attraverso la coltivazione e il consumo dei prodotti del proprio territorio comporta provare rispetto e riconoscenza per l'ambiente in cui si vive. E allora anche le attività industriali ed edilizie potranno essere condotte in maniera sostenibile.

Questo è il genere di federalismo che bisognerebbe proporre. Quello che ha come scopo ultimo una rinnovata relazione tra l'uomo e la Natura; e un rapporto più armonioso e meno competitivo tra gli uomini stessi, specie nell'ambito di uno stesso territorio. Un federalismo che parte dal basso, dai comuni e dalle attività più semplici, e non è imposto in maniera confusa dal governo centrale. E che non ha bisogno di leggi o decreti per partire, ma solamente di uno spiccato senso civico e grande intelligenza da parte della comunità.

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