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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 71 - 1 Luglio 2010 | 0 commenti

Popolo, etnia, nazione

Cos'è che rende una comunità un popolo? Cosa una nazione? Cosa un'etnia? Questi termini sono talmente tanto abusati oggigiorno che ne abbiamo dimenticato quasi completamente i reali significati.

Alla base dei tre concetti c'é l'idea di identità. I membri di un popolo, i cittadini di una nazione, gli individui che compongono un'etnia si riconoscono parte di una comunità in quanto si sentono accomunati agli altri da un ipotetico patrimonio culturale, usanze, interessi, origini comuni. Sono questi che determinano l'identità di una comunità. Ma su basi quanto solide vengono formate queste identità?

Lo studio delle comunità umane e dei criteri in base ai quali queste si determinano e giustificano fa parte dei compiti dell'antropologia, la scienza che studia appunto l'uomo. Ora, accade a volte che una scienza, per il profondo bisogno di spiegare il mondo proprio dell'attività scientifica, nella disperata ricerca di basi solide, a volte sia costretta a creare il proprio oggetto. E' una caratteristica propria della scienza occidentale, inoltre, quella tendenza alla divisione e alla classificazione del reale per poterlo rendere più facilmente comprensibile. L'idea che le diverse comunità umane siano “pezzi da museo” da catalogare e classificare trova d'accordo quasi tutti gli antropologi.

Dividere una popolazione in etnie è frutto proprio di questa tendenza. Cosa distingue un'etnia da un'altra? Qual'è la definizione di etnia? Il dizionario dà questa: aggruppamento umano basato sulla presenza di caratteri somatici, culturali, linguistici comuni. Ed ecco che su questa base vengono create le tribù nordamericane, le etnie balcaniche, quelle africane; giustificate sulla base di tratti somatici, cultura, lingua e spesso origini comuni.

Ma è davvero possibile tracciare confini netti e ben definiti tra le etnie? Saremmo capaci, per esempio, di distinguere basandoci sui caratteri somatici un armeno da un turco? Un ucraino da un russo? Un italiano da uno spagnolo? La stragrande maggioranza delle volte non è assolutamente possibile. Eppure facciamo parte di “etnie” diverse.

Allora si potrebbe passare ad una differenziazione su base culturale. Ma questo tipo di classificazione oggi più che mai è forzato: in un mondo in cui bambini danesi guardano film prodotti ad Hollywood, operai indiani navigano in rete in siti internet inglesi e lavorano in fabbriche in Germania, ragazzi russi guardano canali satellitari americani e studiano in università spagnole, in un mondo dunque dove gli scambi tra culture sono praticamente infiniti si pensa ancora sia possibile distinguere culturalmente un'etnia da un'altra?
Tralasciando certo le rare piccole popolazioni che ancora oggi vivono isolate dal resto del mondo, sfido chiunque a distinguere tra le abitudini e gli usi di un albanese e di un macedone. Per quanto riguarda la lingua?

Non necessariamente gli individui che si identificano in una determinata etnia condividono una stessa lingua, i dogon del Mali ad esempio non parlano tutti allo stesso modo, esistono una miriade di dialetti locali, alcuni molto diversi tra loro. Nei mercati dogon, per comprendersi e poter portare a termine le transazioni commerciali, viene utilizzata la lingua peul come mezzo veicolare, altrimenti i venditori e i commercianti non si capirebbero nemmeno. Eppure fanno parte dello stesso gruppo etnico.

Venuti meno questi possibili criteri di classificazione cosa rimane? Il mito delle origini. Ma si tratta appunto di un mito, spesso creato ad hoc da un'élite per giustificare su basi storiche le richieste di indipendenza o secessione.

L'esempio che può risultare più familiare è la Lega Nord. I leghisti, quando iniziarono la loro attività negli anni '80, giustificavano la loro politica rimandando le origini della Padania ai Celti. I militanti della lega arrivarono a sostenere che i Celti erano federalisti e che non ritenevano necessario un centro di potere comune che potesse decidere del destino dei loro cittadini. Ma queste popolazioni che oggi chiamano “celti” in realtà non sono altro che un'invenzione degli storiografi settecenteschi che, per poterle meglio studiare, hanno classificato le innumerevoli tribù che vivevano sparse tra le isole britanniche e il Danubio con lo stesso nome. In realtà i “celti” non sapevano di essere celti, non avevano uno stato, una cultura, un culto comune. Per dirla con Levi Strauss, i celti “sono buoni da pensare” e grazie alla loro indefinitezza gli si possono attribuire tutte le caratteristiche che si vuole. Prima della Lega Nord, i celti furono utilizzati da intellettuali scozzesi, irlandesi e gallesi per creare la propria identità nazionale in contrapposizione a quella inglese dominante. I celti sono diventati reali dal momento in cui un numero sempre maggiore di individui ne hanno accettato l'esistenza. Ed ecco il nodo gordiano del nostro discorso: un'etnia, un popolo e addirittura una nazione divengono reali, viene giustificata quindi la loro identità, quando i membri di questa credono che la stessa esista. Una nazione esiste quando la popolazione che la abita crede che questa esista. Lo stesso vale per l'etnia e il popolo. La distinzione può venire però anche dall'esterno: come diceva Jean Paul Sartre, è stato l'antisemitismo a creare il semita. Di reale questi termini non hanno niente. Un uomo è un uomo, a prescindere da che cosa sia scritto sul suo passaporto. Nella storia delle società, l'uomo in quanto tale è stato spogliato progressivamente dei propri diritti, assumendo importanza solo in quanto base per la formazione del cittadino. Gli uomini che le costituzioni dei vari stati nominano sono prima di tutto cittadini. Non è forse vero che un sistema politico si preoccupa degli uomini che compongono la comunità in quanto “cittadini” di questa e in quanto tali sottoposti alla sua sovranità? E a cosa altro servono i concetti di popolo, etnia e nazione se non a stabilire il confine tra cittadino e non cittadino, tra appartenente ad un gruppo o ad un altro? Presentando la cultura come un pacchetto compatto di tradizioni, usi, costumi e culti ben definiti, non si fa altro che cercare di rendere netta la distinzione tra “dentro” e “fuori”, una distinzione che altrimenti sarebbe sfumata e indefinibile. Pensiamo davvero che dopo migliaia di anni di storia, di riproduzioni, di scambi gli ebrei possano ancora essere definiti tali?

Queste identità sono state opportunamente create nella storia per raggiungere fini diversi (mantenere compatta una comunità di fronte alle avversità, istigare alla guerra, privare di diritti una comunità scomoda, dare un'impressione di omogeneità di intenti, in generale, unire una popolazione) e sono state giustificate con la creazione di tradizioni, simboli, feste nazionali e religiose e di una pretesa cultura unica. Il procedimento è simile a quello descritto da Orwell in “1984”: nel romanzo esiste il “ministero della verità” che si occupa di riscrivere il passato per giustificare la linea di azione dello stato nel presente. Quando si crea una identità nazionale spesso si fa proprio questo. Si crea il “diverso” creando una sua genesi nel passato.

Forse anche per questo la presenza di immigrati all'interno di una nazione è vissuta con un senso di sgomento e preoccupazione: ci ricordano che non siamo uomini perché siamo cittadini, ma che siamo prima di tutto uomini e poi cittadini. Per quale motivo si dice “naturalizzare” quando un cittadino straniero prende la cittadinanza del nostro paese se non per esorcizzare ciò che lo straniero può rappresentare? Naturalizzare, rendere naturale qualcosa che prima era innaturale.

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