Popolo, identità ed economia: l'esempio a stelle e strisce
Popolo: s,m. un gruppo specifico di esseri umani accomunati da un sentimento durevole di appartenenza, possedendo o meno caratteristiche comuni quali lingua, cultura, religione o nazionalità.
Insomma, una definizione con uno spettro amplissimo, questa di Wikipedia. Ed effettivamente se c'è una cosa oggettiva nell'idea di popolo è che tutti lo possono definire come preferiscono.
C'è chi lo definisce su base territoriale (un popolo, una nazione); chi utilizza un criterio etnico (il popolo curdo, il popolo tibetano, …); chi uno linguistico-culturale (il popolo latino-americano); chi lo definisce su base religiosa, e allora si parla di popolo musulmano, cristiano, ebreo, hindu, ecc.
Discutere quale di queste definizioni sia più corretta in astratto equivale davvero a discettare del sesso degli angeli: ciascuna di esse è ugualmente legittima se vista nell'ottica delle preferenze dei singoli individui. Eppure, accanto alle preferenze individuali ci sono altri punti di vista, più oggettivi, ed uno di questi è il principio della crescita economica.
La domanda che possiamo porci è allora: quali sono gli effetti di avere una identità di popolo che si basa sulle radici linguistico-culturali sulla crescita economica di una Nazione? Quali gli effetti di una identità di tipo strettamente religioso? Quali quelli di una identità etnica?
Rispondere a queste domande è tutt'altro che irrilevante, in particolare per noi abitanti del Vecchio Continente. I popoli europei, così ricchi di una storia millenaria e di un progresso economico, politico e morale, stanno subendo l'urto di un'onda migratoria che ne sta cambiando i connotati demografici, sociali, e persino culinari! Mai nella storia degli ultimi 2000 anni si era assistito ad un terremoto migratorio di questa ampiezza, che ha portato la popolazione straniera a N-plicare negli ultimi venti anni.
La società, l'economia e, soprattutto, la politica hanno impiegato molto tempo a rendersi conto dell'ampiezza del fenomeno ed a reagire. Negli anni '90 tutti gli Stati Europei si sono mossi in ordine sparso, con moti schizofrenici dalla repressione all'apertura incondizionata. Negli ultimi anni si è cominciato a creare un maggiore coordinamento ed una maggiore coerenza nelle politiche di ingresso a livello europeo. Ma mentre ci avviciniamo alla soluzione del problema dei flussi migratori, già è diventato cogente il problema dello stock di stranieri residenti nei nostri Paesi. Ed ecco che su questo “nuovo” problema la politica migratoria si fa ancora una volta evanescente e contraddittoria, con atteggiamenti di intolleranza alternati a interventi buonisti ed ipocriti.
Il risultato di questa carenza politica è un'Europa che in molte sue aree si “balcanizza” lentamente, vedendo crescere giorno dopo giorno il seme del conflitto, della disintegrazione, e di nuove pericolose risposte autoritarie.
Si dice spesso che queste derive siano inevitabili, perchè è impossibile aspirare ad una società multiculturale (non serve andare lontano: basta leggersi una qualsiasi dichiarazione sul tema “multiculturalismo” degli esponenti della Lega Nord, del PDL, o della Chiesa Cattolica), i conservatori dall'ingegno più raffinato arrivano ad argomentare che il problema è che i popoli non possono accettare il multiculturalismo perchè mina il loro senso identitario, e per questo reagiscono con forza uguale e contraria.
Eppure forse gli europei dovrebbero avere il coraggio di guardarsi attorno e capire che ci sono esempi più virtuosi cui ispirarsi, esempi che coniugano identità popolare ed integrazione multiculturale. Oltrepassando l'Atlantico ci si imbatte in un Paese che ha vissuto due secoli di immigrazione continua ed eterogenea, e che è tuttora esposto a flussi che provengono dal Sud del Continente così come dall'Estremo Oriente. Questo Paese, l'avrete capito, sono gli Stati Uniti d'America. Gli USA hanno da sempre adoperato una concezione di popolo estremamente diversa da quella che tante nazioni europee hanno fatto proprio: non l'identità etnica, né quella linguistica, né tantomeno quella religiosa, ma la sola residenza nel territorio (lo ius soli) unito ad una adesione morale ai principi fondanti dello Stato americano. L'effetto è macroscopico: negli USA i vincoli all'ascesa sociale (i cosiddetti “glass ceilings”) su base etnica sono molto più labili.
Per carità, c'è tanta ipocrisia dietro al moralismo americano, e ci sono tanti incongruenze e forti conflittualità. Nonostante le storie di successo, la gran parte degli ispanici ricopre le posizioni più umili nella società, e nonostante il Presidente di colore, gli afroamericani sono ancora largamente ghettizzati. Ma proprio perchè l'identità popolare è un elemento basato sulla percezione soggettiva, più che sulla realtà effettuale delle cose, le storie di successo bastano a creare un senso identitario anche tra coloro che vivono ghettizzati. E non è una peculiarità soltanto americana, in Europa il Regno Unito sta vivendo un fenomeno simile nei confronti della elite musulmana, che sta risalendo rapidamente la scala sociale.
Le potenzialità di questo approccio all'identità nazionale sulla crescita economica sono notevoli e non del tutto esplorate. In un'epoca in cui gli equilibri economici mondiali si stanno spostando verso gli (ex) Paesi in via di sviluppo, l'integrazione degli immigrati nell'elite occidentale può aiutare a mantenere il legame con i capitali che stanno “fuggendo” verso Est. Continuare a trattarli come i paria della nostra società, invece, potrebbe rappresentare l'ennesimo tassello che ci condanna alla decadenza economica.
Sulle colonne del Corriere della Sera, il Professor Sartori ha recentemente affermato che chi pensa che l'Europa possa fare come gli USA è un “facilone”. La tesi del Professore è che mentre gli abitanti degli USA si muovono spesso di regione in regione e di Stato in Stato, gli europei sono da gran tempo residenti fissi. Così, mentre gli americani attraverso gli spostamenti scelgono un vicinato con cui si sentono affini, gli europei sono costretti a convivere con persone che non gradiscono. Aldilà del fatto che i problemi di convivenza a stretto contatto con gli immigrati ci sono (e molto forti) anche negli USA – e consiglierei al Professore la visione di Gran Torino, o American History X, per farsene un'idea – affrontare il tema dell'identità di popolo e del multiculturalismo come se fosse una questione di vicinato è, questa sì, una notevole faciloneria.
La mobilità che manca in Europa (e ancora di più in Italia) non è tanto quella geografica (pure importante), ma soprattutto quella sociale. Ed è solo garantendo la possibilità di ascesa sociale a tutte le componenti etniche e culturali del nuovo popolo europeo che si potrà allontanare il rischio di una nuova Jugoslavia su base continentale.