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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 71 - 1 Luglio 2010 | 0 commenti

Socialità e partecipazione: l'uomo nella polis



A partire dalla nozione di uomo-animale politico, Aristotele sviluppa una trattazione delle forme sociali aggregative che insiste sul naturale bisogno dell'uomo di organizzarsi: che si tratti di famiglia o di polis la comunità dell'uomo greco è radicata nella necessità dell'uomo di associarsi.

Alla base della realizzazione dello scopo supremo della vita umana, e quindi della capacità per l'uomo di realizzare il bene e la felicità (come in Platone), lo stato greco permette all'uomo l'utilizzo dell'intelletto, la pratica della socialità, il confronto con altri individui.

Nella Repubblica Platone individua nello Stato un individuo in grande, a testimonianza di quanto sia radicato nella personalità dell'uomo il sentirsi parte del suo mondo sociale.

Insieme all'inestinguibile ruolo naturale della polis, l'uomo greco realizza e opera momenti sociali che fanno da colonne portanti all'edificio-stato. Ne sono un esempio le forme letterarie di tragedia e commedia che si configurano come veri e propri riti collettivi, ai quali tutti i cittadini partecipano, nelle cui storie (pur immerse nel tempo del mito) i cittadini rivedono e riflettono sulle problematiche del loro tempo. A partire dal tempo di Pericle lo Stato si assunse l'onere di pagare il denaro necessario all'ingresso dei cittadini a teatro.

La religiosità quasi monoteistica di Eschilo inseriva l'uomo greco in un sistema di colpe ed espiazioni, lontano dalla vita di tutti i giorni, ma in cui pure l'uomo della polis trovava consolazione ai suoi piccoli grandi drammi.

Sofocle, con la sua Antigone, proponeva la riflessione sul dovere della disobbedienza a leggi sociali in contrasto con le leggi morali dei rapporti umani; testimone della grandezza e del declino del V secolo e dell'Atene di Pericle, il secondo dei tragediografi invita a riflettere proprio su ciò che si pericolosamente si insidiava nella vita pubblica ateniese.

Il colpo all'unità della rappresentazione teatrale (un'unità sia strutturale che emotiva) venne dato da Euripide, il meno amato dei tragediografi, proprio perché grande traditore della ritualità collettiva della polis. La coralità dei primi due grandi autori tragici si esprime nell'utilizzo del coro che in Euripide diventa quasi un apparato scenico a se stante e che si relaziona ormai con un eroe disarticolato, problematico, sofferente. Euripide mette in scena le donne (con le loro passioni), gli emarginati e il forte messaggio che intende veicolare è la frammentazione dell'animo umano.

Il pubblico ateniese non può accettarlo e il portavoce della “ribellione” è Aristofane, il grande comico del V secolo.

Oltre a rappresentare la realizzazione di una necessità naturale, la formazione della polis risponde anche all'individuazione di un'identità mediante la affermazione di un'alterità; in altre parole la polis e le sue forme di governo individuano il popolo greco come popolo libero e come espressione dell'umanità razionale nel mondo conosciuto. Aristotele differenzia i greci dai barbari soprattutto in virtù del fatto che i popoli barbari sono naturalmente (fusei) predisposti al governo dispotico. Il cittadino greco è colui che è capace di estendere il suo potere dall'oikos alla polis. Pur operando una distinzione fra dispotismo e tirannide Aristotele ben evidenzia che nessuna delle due forme di governo è congeniale all'uomo greco: sono gli orientali che, per fattori climatici o per disposizione d'animo naturale, necessitano di questa forma di governo, così come l'uomo greco necessita della città-Stato.

Il grande senso di appartenenza alla comunità greca che riflette la consapevolezza dell'appartenenza alla comunità umana sembra essere oggi molto lontana se è vero, come è vero, che ci sentiamo tutti un po' più italiani solo in tempo di Mondiali.

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