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Scritto da nel Internazionale, Numero 71 - 1 Luglio 2010 | 0 commenti

Voci da Nairobi: Guilty even if you are Innocent

Voci da Nairobi: Guilty even if you are Innocent

Gamachisa non è stato semplicemente il mio interprete; quando l'ho incontarto e gli ho spiegato della mia ricerca se l'è presa a cuore quasi fosse stata sua. Mi ha presentato Mohamed, il padrone della casa in cui vive, e gli ha parlato di ciò che sto facendo. Mohamed mi ha aperto l'ingresso di quel piccolo bilocale tra Juja e la First come fossi stata una figlia e da quel momento una serie di persone, per 48 ore, si sono avvicendate a quella porta azzurra per raccontarmi le loro vite. Queste storie sono state per me come leggere il Bignami di un genocidio nascosto. Attraverso i loro racconti e le loro lacrime ho potuto intravedere il dramma che si perpetua celato dall'odore delle spezie di Eastleigh; la realtà delle caste Oromo, che perseguitate in patria arrivano in una “no man's land” come Nairobi e si ricostituiscono in maniera ancora più radicale, dando vita a reti di solidarietà così come di persecuzione, minando l'incolumità dei più deboli, quasi sempre donne e bambini. Ed è proprio verso questi ultimi che Gamachisa vuole che io soffermi la mia attenzione, è a loro che ha dedicato la giornata di domani. Questo è un particolare che m'incuriosisce perché lascia intendere la sensibilità atipica di un musulmano verso le questioni di genere.
Sono circa le dieci di sera e una partita del Liverpool di Coppa Uefa fa da sottofondo alle chiacchiere di due coetanei, un'italiana ed un etiope, che nonostante le interviste fatte assieme per tutta la giornata non hanno ancora avuto modo di conoscersi.


Non ho tanta esperienza, ma dopo sessanta interviste con i rifugiati ho sviluppato un certo intuito verso le persone e così mi faccio coraggio. In una pausa delle nostre chiacchiere, dove si passa dai gusti musicali alle prime cotte, chiedo: “ Tu non ami parlare della tua storia, vero Gamachisa?”. Lui mi guarda, si schernisce un attimo e mi dice: “No, non ho nessun problema a parlare della mia storia”. Eppure i suoi occhi, quegli occhi così vivi che mi erano stati accanto per tutto il giorno, si sono spenti di colpo.
Era il 2004, Gamachisa, studente al secondo anno della facoltà di legge presso l'Università di Jima, con alcuni compagni fa parte di un'associazione, la Oromo Art Club, e scrive sul bollettino del campus. Lui in particolare è interessato ai diritti umani e alla questione del passaggio della capitale da Addis Abbeba ad Adama. In quell'epoca mi racconta che diverse domande lo assillavano in merito ai giochi di potere tra Oromo e Tigray (etnia minore dell'Etiopia al potere col presidente Zenawi dal 1992). E' il periodo in cui si decidono le alleanze in vista delle elezioni del 2005, e il Presidente Zenawi ha dichiarato che, ad esclusione dei membri dell'OPDO, tutti gli Oromo sono in qualche modo membri dell'OLF.
Un giorno, di comune accordo con i suoi compagni, Gamachisa fa uscire un articolo sul bollettino che parla proprio di questo, lo intitola “Guilty even if you are Innocent”. Quell'articolo, mi dice, gli ha cambiato la vita per sempre.
Nei mesi che seguirono alla pubblicazione del pezzo infatti, le proteste degli studenti etiopi per i timori di brogli elettorali e per lo spostamento della capitale si intensificarono. Centinaia di studenti appartenenti ad ogni etnia vennero uccisi dai militari che si rifiutavano di accordare i permessi per le dimostrazioni. Le notizie di quanto accadeva in Etiopia cominciarono ad avere risonanza internazionale e furono documentate anche da un network d'informazione statunitense: Voice of America.
Le forze militari nazionali iniziarono le repressioni e le persecuzioni all'interno dei campus. Gamachisa ed i suoi compagni decisero di nascondersi per sfuggire ai rastrellamenti a tappeto di quei giorni. Passate due settimane però, uscirono allo scoperto e si unirono alla grande manifestazione per la rivendicazione di Addis Abbeba come capitale d'Etiopia. Gamachisa fu “sfortunato”: braccato dai soldati, fu arrestato e trasferito immediatamente in un campo di detenzione. Era l'Aprile 2004.
Lui non me lo dice, ma capisco che Gamachisa muore in quel momento e con lui la sua fiducia incondizionata nel diritto, nel giusto processo.
I soldati lo accusarono di aver cospirato contro il governo e di aver scritto articoli di carattere politico. Lui ammise la paternità di “Guilty even if Innocent” e respinse la cospirazione politica. Chiese di essere portato a giudizio, consapevole che quanto gli stava accadendo era contro la libertà di espressione di ogni individuo. Evidentemente, anche loro ne erano consapevoli; proprio per questo Gamachisa non vedrà mai un tribunale.
Smette di guardarmi e si rivolge al televisore. “Sono stato quattro anni dentro a quel campo” sussurra, poi fa una pausa ed un tiro di sigaretta con l'intensità di chi vuole inghiottirsi l'anima. “Mi hanno torturato e fatto delle cose orribili, inumane… Per almeno cinque volte sono stato costretto a dormire per una settimana con un cadavere”.
Dai 20 ai 24 anni, è stato chiuso in una cella, solo, impossibilitato a comunicare con gli altri detenuti, forzato a masturbarsi davanti ad una guardia, ogni giorno per 1460 giorni. I suoi occhi non cessano di fissare lo schermo, mentre i miei osservano i suoi che cercano di trattenere le lacrime. Inghiottisce un altro pezzo di anima e poi va avanti. “Io non volevo più vivere, pensavo al suicidio, a come generare una rissa con un soldato per farmi ammazzare… Poi un giorno si sono decisi a finirmi”. Nei campi di detenzione etiopi esistono delle cave in cui i soldati gettano i detenuti, li chiudono là dentro vivi e poi attivano dei tubi da cui sprigionano monossido di carbonio.
Quando si è risvegliato, Gamachisa era in ospedale. Mi dice che per lui è stato difficile ricostruire quanto gli è successo in quelle ore, da quando la cava si è chiusa e il monossido ha fatto effetto. Pare comunque che l'ICRC (International Committee of Red Cross) abbia fatto irruzione nel campo mentre lo stavano soffocando. Una volta portato in ospedale, Gamachisa è stato condannato tuttavia a morte per una seconda volta: “Dato che ero stato salvato da un'agenzia umanitaria rappresentavo una minaccia per il governo, avrei potuto fare dichiarazioni in merito alle violazioni dei diritti umani in atto nelle prigioni etiopi”. Un medico gli mostrò un foglio in cui i militari davano due giorni di tempo all'ospedale per farlo fuori. “Quel medico” mi dice guardandomi nuovamente negli occhi, “non solo mi ha salvato la vita ma per farlo ha messo la sua in serio pericolo”. Gli diede dei soldi, quanto serviva per allontanarsi al più presto, e gli disse: “Ora scappa e basta”. E così Gamachisa fece ciò che qualsiasi figlio farebbe dopo quattro anni di torture: corse dalla sua famiglia.
Il ritorno a casa purtroppo non fu il ritorno del figliol prodigo che si potrebbe immaginare o sperare. Quando la porta di casa si aprì e i suoi occhi incrociarono quelli della sorella, Gamachisa comprese di essere un morto che camminava. La madre, che in quel momento sopraggiunse alle spalle della sorella non resse il colpo, cadde svenuta e finì in coma per lo shock. Mentre veniva portata da un vicino in ospedale, la sorella raccontò a Gamachisa che da quando era stato arrestato la madre non si era data pace, l'aveva cercato in tutti i campi di detenzione del paese. In almeno due di questi, i militari dichiararono di averlo ucciso; fu così che dopo un anno la madre si arrese al fatto di averlo perso per sempre.
Tutti credevano che Gamachisa fosse morto, i suoi compagni scampati alle persecuzioni avevano perfino portato degli scatoloni contenenti le poche cose che non furono sequestrate dai militari.
Rimanere in Etiopia per Gamachisa significava una sola cosa: la morte certa. Decise di scappare e lo fece la notte stessa. Pagò una quota a un autotr
asportatore e si diresse qui, a Nairobi. Era Marzo 2009.

La partita è ormai ai supplementari e la discussione si è spostata su argomenti più “leggeri” quali i suoi disperati tentativi di mettersi in contatto con i vecchi compagni, ormai sparsi per il mondo. Si parla di Facebook e il suo valore aggiunto in questi casi, quando diventa uno strumento per riprendere i contatti di una vita in stand by. I messaggi in codice per farsi riconoscere da coloro che lo credono morto e temono di essere vittime di tentativi di spionaggio da parte delle forze armate; le telefonate con la sorella, alla quale chiede regolarmente di sé stesso per paura delle intercettazioni e gli aggiornamenti sulle condizioni di salute della madre, la quale si è risvegliata dal coma solo sei mesi dopo e che tuttora non si è ripresa psicologicamente.
Quando la partita finisce, Gamachisa insiste per prepararmi il materasso. Si versa una tazza di latte ed io lo osservo. Sorridendo gli dico: “Sembri un bambino, sai i bimbi, ai quali si da un bicchiere di latte prima di andare a letto?”. Lui alza gli occhi dalla tazza e scoppia a ridere: “Ma noi siamo ancora bambini, io e te intendo. Mi sembra che noi speriamo ancora, no? Chi spera, infondo, è ancora un po' bambino”.
La porta si chiude ed io rimango sola in quella stanza piena di storie, ma continuo a pensare solo a lui, all'idea insostenibile che si possa morire per delle idee. Poi mi concentro su quella sua ultima frase: “Noi siamo ancora bambini”, e mi rendo conto che esistono persone che possono essere uccise una, due volte nell'arco di una stessa vita, ma che poi in realtà quelle persone in qualche modo rinascono e con loro le loro idee.

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