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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 73 - 1 Ottobre 2010 | 0 commenti

Ddl Gelmini: tristi nuove per l'università

Chi voglia comprendere il perché della mobilitazione in atto in questi giorni in molte università italiane contro il Ddl Gelmini dovrà mettere per un attimo da parte i giornali (alcune dei quali hanno parlato, settimane fa, di un rettore, quello di Bologna, Ivano Dionigi, che avrebbero addirittura “sostituito”, nel senso di “rimosso” i “docenti” indisponibili a fare lezione) e tentare di capire la strutturazione del complesso mondo accademico.

La galassia dei genericamente detti “docenti” universitari è costituita dal pianeta degli strutturati (vale a dire dei dipendenti a tempo indeterminato: gli assunti) e da quello dei precari (tutti coloro che svolgono una attività di ricerca con un contratto a tempo determinato e che spesso, più o meno titolati, con più o meno legittimità, svolgono anche lezione). Il pianeta degli strutturati o “incardinati” è composto al suo interno da tre fasce che, dal basso all'alto, sono: i ricercatori, i professori associati e i professori ordinari, in ordine crescente di prestigio, stipendio e potere. Ma non è solo questione di questo. Al contrario che per i professori (associati e ordinari), che hanno un ruolo prevalentemente – anche se non esclusivamente – didattico, il contratto dei ricercatori non prevede incarichi di docenza. La figura del ricercatore, piuttosto anomala nel panorama europeo (dove il primo grado nell'ordinamento accademico prevede un significativo monte ore didattico), è stata istituita in Italia nel 1980 per svolgere esclusivamente, come dice la parola stessa, una attività di ricerca.

Ma nel Belpaese, come ben si sa, conta più la pratica della grammatica. Dopo la massiccia entrata in ruolo, all'inizio degli anni ottanta, sia nella scuola superiore che nell'università, di un numero ragguardevole, persino eccessivo di professori, finiti i tempi della “Milano da bere” e della sbornia craxiana, lo stato italiano ha cominciato ad investire sempre meno nell'educazione e nella ricerca (settore considerato poco produttivo e strategicamente irrilevante) fino ai penosi risultati di oggi, che vedono l'Italia al penultimo posto nella classifica dei paesi europei che investono maggiormente nel sistema dell'istruzione e della ricerca (con un miserabile 0,2% del Pil contro 2, persino 3% di altri paesi). Dunque, da una parte assunzioni sempre più col contagocce fino ad arrivare ad un turn over praticamente bloccato – questa la situazione di oggi – dall'altra un proliferare forsennato e spesso insensato di corsi di laurea. Risultato: i professori non bastano più, e i presidi si sono da molti anni visti costretti a chiedere anche ai ricercatori di “assumere” dei corsi di insegnamento, quasi sempre a titolo del tutto gratuito. Oggi in molte facoltà italiane circa la metà delle ore di lezione vengono svolte da ricercatori, vale a dire da persone che non hanno l'insegnamento fra i loro compiti contrattuali, ma che, con un atto di volontaria passione, suppliscono i vuoti istituzionali.

Il ringraziamento eccolo qua. Uno dei punti roventi del Ddl che, già approvato in Senato dopo una discussione eccezionalmente rapida, si appresta ad essere votato alla Camera dopo una discussione forse ancora più rapida, sta proprio nella 'dismissione' della figura del vecchio ricercatore (in realtà già prevista dalla riforma Moratti) e nella creazione di un nuovo tipo di ricercatore, ovviamente precario – per stare al passo coi tempi – cui la propria facoltà potrà stipulare contratti di (3+2)+3 anni. Durante questi anni il ricercatore precario dovrà sostenere a Roma un esame di abilitazione, ottenuta la quale potrà, se ci saranno i soldi, essere assunto come professore associato dalla propria facoltà. I ricercatori strutturati temono, forse a ragione, di avere la carriera stroncata, in quanto rischiano di entrare in un binario morto, ma soprattutto lamentano un totale disconoscimento della loro imprescindibile attività didattica, condotta al di fuori di ogni possibile valutazione ufficiale. I ricercatori precari (dottorandi, assegnisti, docenti a contratto, ma anche liberi ricercatori in “vacanza contrattuale”) temono, dal canto loro, una ulteriore precarizzazione delle loro vite, in uno snodarsi parossistico di contratto in contratto del loro iter accademico, fino oltre le soglie dei 40 anni. Una carriera standard, di un bravo studente in xxxxxxx desideroso di fare carriera accademica, potrebbe infatti così configurarsi: 3+2 anni di laurea (24 anni), 3 anni di dottorato (27 anni), 4 anni di assegno di ricerca (31 anni), 3+2+3 di RTD (ricercatore a tempo determinato, 39 anni); considerando che tra uno “step” e l'altro ci passa sempre almeno un anno di “vacanza contrattuale”, si arriva, se tutto va liscio, a 42 anni. Che non è un'età scandalosamente alta per diventare professori associati, ma lo è per arrivare ad avere una sistemazione fissa nel mondo della ricerca (soprattutto quando si pensa che in Inghilterra alla stessa età si può governare il proprio paese…).

Una carriera erta e minata come questa, è chiaro, sarà sostenibile solo da persone economicamente attrezzate, con una famiglia in grado di sostenere l'aspirante accademico nei momenti “psicologicamente” (ed economicamente) instabili. Con buona pace della meritocrazia.

Ma, a parte il discutibilissimo castello di carte messo in piedi da questa riforma, il punto imprescindibile è l'aspetto finanziario, sul quale il ministro Tremonti è stato chiarissimo: non solo sull'Università nei prossimi anni non si investirà, ma anzi, almeno fino al 2013, progressivamente, si disinvestirà (dal 2008 al 2013 è stato previsto un taglio di circa 1,5 miliardi di euro): dunque i tanti contenitori che la riforma ha concepito rischiano di rimanere vuoti scatoloni, in attesa di decreti attuativi che verranno rimandati all'infinito e di finanziamenti che non arriveranno, se non in numero scandalosamente basso, per attivare i primi contratti da ricercatore a tempo determinato, per i nuovi professori associati, per i dottorandi, per gli assegnisti…

«Ma – si sente dire – l'università è piena di sprechi e di professori fannulloni, e dunque tagliare i fondi significa tagliare gli sprechi». L'aspetto tragico è che affermazioni come questa dimostrano una totale ignoranza del mondo accademico, che, se da un lato è abitato da alcune centinaia di baroni con grandi privilegi, dall'altro è portato avanti quotidianamente da migliaia di ricercatori precari dalla variegata casistica contrattuale (sottopagati o a volte non pagati: oggi sono previste anche contratti di docenza a titolo gratuito!) che svolgono compiti che non spetterebbero loro, svolgendo nei fatti una funzione di supplenza (vd. anche il caso dei ricercatori strutturati suindicati). Per questo non è possibile pretendere di riformare a costo zero (anzi, addirittura risparmiando!) perché, se una seria azione riformatrice ha sempre bisogno di un gettito di denaro straordinario, questo è tanto più vero per un sistema già ipofinanziato e che si basa da anni sul lavoro non riconosciuto di molteplici figure contrattuali frustrate.

Pur guardando gli avvenimenti da prospettive diverse, l'obiettivo dei ricercatori precari e strutturati oggi dovrebbe essere unico: quello di una riforma dell'università che tuteli la ricerca come fonte principale del progresso di un paese, e in quanto tale meritevole di essere, se non finanziata, almeno discussa un po' di più della pres
unta proprietà monegasca del genero del presidente della Camera.

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