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Scritto da nel Bologna, Numero 73 - 1 Ottobre 2010 | 0 commenti

Geografia della paura

Geografia della paura

Una geografia essenziale

Partiamo da un presupposto: parlare di paesaggio vuol dire inevitabilmente parlare di linguaggio.

E' bene avere in mente, prima di tutto, che ognuno di noi vive le proprie città come se vivesse sull'epidermide di un grande animale che cresce e lotta: le città sono stratificate, pregne, piene di odori: i segni, i palazzi, la gente, le tempere, i materiali, i profumi, le forme. Tutto di una città ci parla, ci conduce, ci identifica: tutto è segno e simbolo e noi, di questi simboli, ci nutriamo.

La geografia dunque non è mai strumento piatto, non è mai sfondo ma sempre dialogo costante con la nostra cultura di appartenenza: nel paesaggio nostro, vitale, in cui giorno per giorno operiamo, ci identifichiamo e costruiamo i nostri valori, i più profondi, che definiscono società di appartenenza e personalità.

Si potrebbe dire che noi siamo anche i luoghi dove viviamo. Quando si rivendicano le nostre radici cristiane si rivendicano così, implicitamente, anche le nostre chiese, i nostri chiostri, le nostre croci e le nostre campane e, di conseguenza, il loro suono scandito per le messe, i matrimoni e le morti. Sono i paesaggi dell'occhio, i colori della pietra, le vesti buone per la messa domenicale, le facciate dei palazzi, le skylines della città che costruiscono la nostra identità e la nostra cultura.
La sicurezza allora si raggiunge in una compenetrazione con l'ambiente, in un'armonia oppure un'eco che dalla bocca nostra va alle mura dei nostri edifici e torna così alle orecchie.
Se abbiamo in mente questo, se questa è la nostra linea guida, allora possiamo capire la paura di perdere questa simbiosi-sicurezza che è rappresentata dal rapporto uomo-paesaggio.

Una mosche e due Leghe per Bologna

Era il 2008 a Bologna. Si discuteva da molto tempo riguardo la possibile costruzione della prima moschea della città: la necessità era nata dall'inadeguatezza dei luoghi deputati al culto islamico e dalle crescente domanda, da parte della comunità islamica bolognese, di un luogo in cui potersi riconoscere e svolgere le proprie attività.
Nacquero allora una serie di comitati tra cui una pretestuosa “Lega anti-diffamazione cristiana” che in armonioso accordo con l'alacre partito della Lega Nord ebbe gioco facile a fomentare una paura già presente in germe nella società civile: i pretesti addotti per giustificare la contrarietà al progetto furono (più o meno esplicitamente) di carattere urbanistico, economico e “legalitario”.
In questi termini la discussione poteva sembrare corretta e giustificata poiché i tre aspetti erano inerenti a esigenze inderogabili di piano puramente logistico o legale: si parlava allora di inadeguatezza del sito individuato, di una presunta sperequazione del terreno che il comune avrebbe dovuto cedere alla comunità islamica e, naturalmente, della paura per un possibile aumento di una supposta attività terroristica. Vennero poi le amministrative del 2008 e la moschea sembrò un piano di discussione troppo pericoloso per poter affrontare con tranquillità le urne: così il tutto, piano, scivolò quasi consensualmente nel silenzio.

La perdita dell'identità



Ma torniamo indietro a quelle che sembravano legittime critiche al progetto: se decidiamo di interpretare l'accaduto alla luce di ciò che si è brevemente esposto all'inizio di questo articolo, ovvero tenendo a mente il valore simbolico della geografia, accostandogli magari qualche documento grafico dell'epoca, otteniamo allora la traccia della reale linea di condotta che seguirono la Lega anti-diffamazione cristiana assieme alla più radicata e intransigente Lega Nord.
Non si devono svalutare le giuste critiche ad un progetto, ma le critiche debbono essere necessariamente costruttive e positive, ovvero devono permettere di portare a compimento un progetto secondo determinate correzioni senza negarlo a priori.
Ma si può bene immaginare quale fosse il vero obiettivo delle due Leghe: l'opposizione assoluta e inderogabile ad una moschea. Bisognava allora solo impaurire a tal punto la società da convincerla a non accettare qualsivoglia soluzione alternativa, e la cosa era semplice: bastava fargli capire che una moschea a Bologna avrebbe segnato la fine del predominio della nostra identità culturale.

Comparirono per le vie della città manifesti dove una Piazza Maggiore veniva usurpata da una invasione di mussulmani in preghiera ed altri in cui l'intera città veniva trasformata in una grande moschea dove al posto delle torri spiccavano minareti e cupole in vece dei campanili, una visione dove con poca immaginazione si potevano udire i muezzin, cinque ore al giorno, predicare una straniera religione che ci avrebbe sottomessi.
Le Leghe scelsero bene la mossa: si doveva colpire la gente dove la paura è più facile a scatenarsi: bisognava far capire che un progetto del genere avrebbe fatto perdere il territorio e così la cultura e le radici e l'identificazione di noi stessi nel nostro stesso luogo: ci avrebbe reso stranieri, avrebbe denigrato, violato e violentato tutto ciò che ci apparteneva di diritto. Saremmo stato incapaci di guardare perché lo sguardo sarebbe tornato a noi indignato di quella vista.
Giocarono bene a spaventare la gente, su falsità immense (come si sarebbe potuto credere che la città, realmente, si potesse trasformare in ciò che questi manifesti propongono?) ma il gioco funzionò.


Conclusione: il nervo scoperto

Si possono trovare su internet terrorizzate testimonianze di donne che non potevano capacitarsi di essere costrette alla vista di un minareto alto decine di metri (quando mai, parola del presidente del centro cultuale islamico, ce ne sarebbe stato uno così alto) e di uomini che tuonavano contro un nuovo “Stato interno allo Stato” che sarebbe sorto a distruggere la nostra struttura sociale.
La verità è che si capì allora che il nervo scoperto che fa da tramite tra uomo e ambiente è un nervo che facilmente provoca una paura profondissima, inarrestabile, dove perdere il territorio vuol dire perdere se stessi, dove paura è paura incurabile di divenire ciechi o deprivati del nostro luogo di vita.
Così nel 2008 non si costruì nulla, le genti miracolate sentirono nuovamente inviolato quel nervo e videro sfumare il progetto di quella moschea che prima ancora di pesare sulla città avrebbe pesato sul nostro cuore, martoriato nella dignità e nella sicurezza si sapersi riconoscere gettando lo sguardo all'esterno.

La geografia non è mai stata così inquietante.

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