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Scritto da nel Internazionale, Numero 73 - 1 Ottobre 2010 | 1 commento

Prato: la viCina è il mio nemico?

Sotto certi aspetti, l'opportunità del punto interrogativo è discutibile. Siamo ben oltre la solita cantilena leghista sugli indiani e le riserve. La posta in gioco non sta tanto nella difesa del 'Made in Italy', come sostiene il mainstream Confindustriale: decisamente più ardente è la difesa dei diritti e della dignità dei lavoratori – italiani e cinesi, non fa differenza – di fronte ad un caso lampante di ritorno del capitalismo più brutale, sotto forma di dumping sociale. Quello perpetrato dagli imprenditori cinesi del tessile nel distretto di Prato.
Mentre l'Italia è impegnata a rovistare tra la miseria umana del proprio potere, il 12 settembre il New York Times pubblica un esteso reportage dal titolo, “I cinesi ricostruiscono il marchio Made in Italy della moda”. Per la verità, l'articolo riprende ed aggiorna i contenuti di un libro-inchiesta pubblicato nel 2008 dal Sole 24 Ore, “L'assedio Cinese”, a firma di Silvia Pieraccini.
Si narra della crescita esponenziale di una fitta rete di imprese (3.200 con 17mila addetti nel 2008, più il sommerso, i cui numeri si gonfiano a seconda della fonte), fondate e dirette da immigrati cinesi di prima generazione, che dalla fine degli anni '80 studiano e copiano la produzione di capi di marca, diventando il motore del distretto del 'pronto moda' di Prato e progressivamente incamerando il giro di affari sia della subfornitura sia del prodotto finito. Dal punto di vista economico, la loro forza si basa su quattro pilastri: costi di produzione abbattuti e affidabilità nelle consegne; abbondante disposizione di offerta di manodopera connazionale; italianissimi metodi di evasione fiscale (aziende che nascono e muoiono nel giro di un mese, false fatture, lavoro nero etc); rapporto commerciale esclusivo con la Cina, da cui ora dipende il 27% di importazioni ed esportazioni.
Dal 2005 è avvenuto il sorpasso: le imprese tessili cinesi registrate alla Camera di Commercio locale hanno superato in numero quelle non-cinesi, in buona parte per effetto della chiusura delle seconde. Con malcelato compiacimento, il NY Times indugia sul rancore della popolazione toscana: alla distanza linguistica si aggiungono la segregazione economica mono-etnica e la complessiva crisi del tessile, apparentemente solo italiana. Un risentimento peraltro italianamente ambiguo: gli scrupoli comunitari vengono improvvisamente meno a chi specula sull'affitto dei locali a prezzi stellari (accessibili solo a fonti di credito di una certa portata), ai consulenti fiscali solerti nel dispensare consigli su come meglio aggirare le norme fiscali, e agli imprenditori italiani stessi – come la Sasch del neo-sindaco pratese di centrodestra Roberto Cenni – che delocalizzano a loro volta le attività…in Cina. Appunto.
Perché il cuore della questione sta tutto qui: in un settore come quello tessile, caratterizzato da un'alta intensità di lavoro, proprio il costo dei lavoratori diventa il principale fattore di competizione tra aziende o sistemi-paese. Certo, il taglio, i tessuti, il marchio: tutti punti di forza in termini di qualità. Ma nel momento in cui, dopo lunghi anni di esperienza, le aziende cinesi hanno cominciato a ridurre il gap nelle competenze tecniche, si immaginano perfettamente le cause della abissale differenza di prezzo tra un 'made-the-chinese-way' e il Made in Italy: lo sfruttamento della manodopera per stipendi ridicoli, a orari sovrumani, e l'aggiramento di ogni legislazione sociale, oltre che fiscale. Sostiene Pieraccini che non ci sia alcun iscritto cinese ad un sindacato a Prato (e solo un imprenditore alla Confindustria locale), che solo il 7% dei contratti in quelle imprese duri più di due anni e che la pratica delle dimissioni volontarie si infittisca in coincidenza con la chiusura -periodica- delle aziende. La mediazione delle istituzioni, già gravata dal divario culturale, diventa quasi impossibile con l'estensione dell'imprenditoria cinese: in un contesto nazionale in cui defezionare dal contratto nazionale è un gesto sdoganato da qualsiasi riprovazione sociale, perché dovrebbero essere proprio questi ultimi a collaborare?
Non c'è bisogno di ricorrere al drammatico capitolo di Gomorra per immaginare le vite dei lavoratori immigrati in queste aziende, le motivazioni che li spingono ad accettare queste condizioni. Non c'è però nemmeno bisogno di ingegno per capire che la conseguenza di questa competizione sui costi determina una rincorsa generale delle imprese nel settore ad abbassare salari, aggirare obblighi sociali e, più comodamente, a delocalizzare verso l'estero. Ci vuole una buona dose di ingenuità nel sostenere che in fondo i consumatori siano i maggiori beneficiari di un generale calo dei prezzi: la brutalità del capitalismo fondato sul dumping sociale si riverbera sulle condizioni salariali dei lavoratori più deboli, gli stessi che più probabilmente compreranno i prodotti a basso costo della stessa mano che li affama.
I commenti dei lettori sul forum del NY Times si possono sintetizzare così: “i cinesi lavorano più degli italiani, è giusto così”. Detto nel giorno in cui per l'ennesima volta Obama si trova a protestare ufficialmente per la svalutazione artificiale del renminbi, o dopo le innumerevoli dispute al WTO riguardanti la concorrenza sleale cinese, l'idiozia fa sorridere. Il distretto di Prato è un esempio che dovrebbe estendere i nostri pensieri oltre i teneri confini del culturally-correct: il secolo cinese potrebbe segnare tanto la fine dei diritti sociali quanto una nuova ragione di vita per il movimento dei lavoratori, soprattutto se questo partisse dai cinesi stessi. Potrebbe anche marcare la fine di questa stravaganza del libero commercio internazionale: ma qui la fantasia è già corsa veloce, non ditelo agli economisti.

1 Commento

  1. Grazie, bell'articolo

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