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Scritto da nel Numero 74 - 1 Novembre 2010, Politica | 0 commenti

Da intellettuali a cretini di sinistra

La storia si ripete sempre due volte: la prima volta in tragedia la seconda in farsa.

K. Marx

Gli economisti hanno un pallino fisso in mente: quello di studiare come cambia la struttura di un'organizzazione, di una società, o di un gruppo di individui a seguito degli incentivi che ne animano le azioni. Grazie a complessi modelli matematici cercano di descrivere l'evoluzione ciclica di questi sistemi sociali ed economici.[1] A volte, però, la matematica non serve: basta spesso un po' di spirito di osservazione per individuare e capire piccoli e grandi corsi e ricorsi storici.

È questo il caso della ascesa e declino degli intellettuali di sinistra, un fenomeno che si è presentato già due volte negli ultimi 50 anni. Inutile dire che oggi siamo nell'inverno dell'intellettualismo, ma se siamo fortunati potremmo non vedere più una sua nuova primavera.

La prima ascesa che io conosca (ma certo ce ne erano già state molte altre) risale al secondo dopoguerra. L'Italia di allora era più o meno gloriosamente uscita dagli anni bui del fascismo, e compito degli intellettuali era quello di contribuire alla costruzione morale della nuova Repubblica. Come ogni buona costruzione sociale, essa si basò su di un mito fondante (la Resistenza), su di un testo sacro (la Costituzione), e su di uno spazio condiviso di dialettica (il cosiddetto “Arco Costituzionale”). In tale costruzione erano impegnati tanto gli intellettuali di sinistra del PCI e PSI quanto quelli di centro della DC, ma i primi avevano un innegabile vantaggio comparato: erano loro i veri “guardiani” della Resistenza, ovvero del mito fondante dello Stato stesso. Grazie a questo vantaggio comparato potevano influenzare alcuni altri elementi dello Stato. Non tanto la Costituzione e le istituzioni formali (che erano saldamente in mano alla DC), quanto le norme informali e la stessa definizione politica dell'Arco Costituzionale. Attraverso quest'ultimo potere, ad esempio, riuscirono a bloccare il ritorno delle destre al governo nel 1960.

Eppure, poco dopo questo ed altri eventi che segnarono la loro affermazione nella cultura politica e morale dell'Italia degli anni '60, gli intellettuali di sinistra cominciarono la loro parabola discendente, con la definitiva transumanazione nella figura del cretino di sinistra.

Il primo a notarlo è stato Sciascia:

Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra; ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l'evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l'Epifania.” Nero su nero, 1979.

E già nel 1980 i cretini di sinistra si erano talmente moltiplicati da far scomparire quasi del tutto gli utilizzatori di vero intelletto in questo schieramento politico. Questo spiega come mai Sergio Ricossa così descriveva gli intellettuali di sinistra tout-court:

Essi sembrano amare praticamente nessuno se non il proprio io, alla Narciso (fors'anche un po' alla borghese?). Amano il popolo come astrazione, lo detestano probabilmente come insieme di persone vive, e cioè rumorose, sudate, invadenti, volgari. Il popolo vivo sembra sopportabile solo se lo si guarda dall'alto di un palco ben isolato ed elevato. Irreggimentare il popolo, metterlo in fila, comandarlo, tutelarlo anche, ma come si tutelano i minori, finalmente farsi applaudire dal popolo: ecco le seduzioni di chi sta a «sinistra». ” Lo Straborghese, 1980.

Se ammettiamo che Ricossa avesse ragione, e dunque che gli intellettuali di sinistra fossero ormai una elite dilaniata da conflitti interni e da paturnie interiori (la famosa “auto-coscienza”), persa in vuoti rituali dialettici, ed animata in ultima istanza dalla sola smania narcisistica di conquistare applausi, ci possiamo chiedere: come si arrivò a tale bassezza? Come la storia gloriosa dell'intellettuale del dopoguerra si degradò nel vuoto narcisismo dei vari Mario Capanna, Adriano Sofri, Antonio Negri?[2]

La prima e più semplice risposta è che tali intellettuali erano solo i figli imborghesiti della vecchia classe intellettuale, quella che era sorta con i piedi ben piantati sulla dura realtà della guerra. Questi pasciuti figli di papà avevano paura di sporcarsi le mani della morchia degli operai, o meglio della merda del sottoproletariato. Per sfuggire alla realtà, presero ad innalzare il discorso politico a vette sempre più pure di astrazione (il discorso “problematico e capillare” che indica Sciascia), cosa che ebbe il non trascurabile effetto collaterale di renderli sempre più autoreferenziali e, in ultima istanza, ininfluenti.[3]

Ma tale risposta rimane parziale, a mio avviso: la ragione è più profonda, e rende lo scollamento degli intellettuali dalla realtà quasi inevitabile. Il punto è che la natura stessa dell'ideale che li ha animati dalla fine della guerra ne ha determinato la decadenza. I miti fondativi della nuova Repubblica (la Resistenza, la Democrazia e l'Uguaglianza) erano destinati a scontrarsi con la realtà concreta fin dai suoi primi anni, e ad essere progressivamente demitizzati.[4] Ora, quando un mito crolla si possono avere tre reazioni: o lo si rinnega, o si cerca di modificarlo e rinnovarlo, oppure lo si difende strenuamente, anche di fronte all'evidenza della sua inevitabile morte. In tanti, negli anni '70, scelsero quest'ultima strada, così sancendo la progressiva marginalizzazione delle sue istanze sociali e politiche. Non mancarono anche coloro che rinnegarono tali ideali, e intrapresero una parabola politica ed umana che li portò nelle braccia delle forze della reazione. È notorio, del resto, che le file degli odierni berluscones siano piene di ex-intellettuali di sinistra, ex-sodali di Sofri in Lotta Continua, ex-Sindaci comunisti di Fivizzano. Il loro contributo alla morte degli ideali della Repubblica è stato (ed è tuttora) tra i più sostanziali. In pochi, quasi nessuno, decise di lavorare seriamente per un rinnovo degli ideali che rendesse il messaggio dei Padri Costituenti tuttora attuale.

Il risultato della crisi degli intellettuali, e della nascita dei cretini intellettualoidi, è stato il reflusso degli anni '80 e la fine dell'egemonia culturale. Se questo primo ciclo di ascesa e declino degli intellettuali è stato piuttosto evidente, il secondo lo è stato di meno. In tanti potrebbero sostenere che dalla crisi degli anni '80 gli intellettuali non si sono più ripresi. Eppure a me pare che un secondo, più breve, ciclo sia effettivamente avvenuto: mi riferisco qui a quella primavera di intelletti progressisti che si è avuta fin dai primi anni '90. Non ha portato certo alle conquiste degli anni '60, ma ha favorito la caduta del vecchio sistema di potere ed è stata caratterizzata da momenti “mitici” come la Primavera di Palermo, il primo Ulivo, e più avanti i primi movimenti antiglobalizzazione. Ma proprio questi ultimi ne rappresentano tanto l'apice quanto la sua crisi.

È stato infatti in breve chiaro che tra i movimentisti i cretini di sinistra abbondavano, ed anzi ne erano i leader carismatici. Emblematico è stato il gran ritorno di Antonio Negri, come a creare un ideale ponte tra i due momenti storici di massima stupidità nel pensiero della sinistra.

Sic transit gloria mundi. La parabola degli intellettuali di sinistra è di nuovo al suo minimo. Da questo minimo, fatto di parole vuote e contorte per cercare di spiegare con complessità i fenomeni semplici, di discussioni sopra il sesso degli angeli, di incapacità di ascoltare e di disprezzo per la realtà, non dovremmo potere che risalire.

Dovremmo potere”: una costruzione complessa per cercare di nascondere la mia totale ignoranza circa il futuro che ci aspetta. Ma del resto scopo di questo articolo era solo quello di sostenere una tesi attraverso un affresco pseudo-storico. Uno degli obiettivi principali di ogni buon cretino di sinistra.




[1] Fanno eccezione gli economisti neoclassici, che teorizzano sistemi statici, in cui non cambia niente. Ma la loro è spesso un difficoltà con la matematica prima che con la filosofia.

[2] Mi riferisco qui, ovviamente, alle loro figure nei soli anni '68-'70 e non successivamente. Con l'esclusione di Negri.

[3] Ed anche antipatici, come sta antipatico un secchione-saputello che quando apre bocca dice scemenze.

[4] Proprio con riferimento ad un intellettuale di sinistra che è stato fatto lui stesso mito, Cesare Pavese, Gianni Vattimo ebbe a dire: “i monumenti, sia in positivo sia in negativo, sono sempre falsi, miti esposti all'inevitabile lavoro di demitizzazione”.

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