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Scritto da nel Internazionale, Numero 81 - 1 Luglio 2011 | 0 commenti

Diario da Gaza – Terzo giorno – 14/5/2011

14/05/2011
3 giorno:


La mattinata inizia presto e il vento spinge incrociando le mani e i volti di una resitenza, nel porto, in quel porto di Gaza dove ci accolgono radunati alcuni del sindacato dei pescatori di Gaza, Fishermen.
Da cinque anni ormai per l'assedio gli è praticamente impedito l'accesso al mare. Oltre solo due miglia dalla costa Israele impedisce loro di proseguire, un modo come altri per negare la sussitenza ad un popolo. Secondo gli accordi di Oslo (1993) fino alle venti miglia dalla costa i pescatori hanno diritto di accesso. Israele non concede, il resto del mondo tace.
Formiamo un cerchio sulla sabbia per ascoltare le parole di questa parte di resistenza. La produttività negli ultimi anni è diminuita dell'85 %. 4mila sono i pescatori, 3.800 le persone che lavorano attorno al porto. L'attività della pesca basterebbe a dare sostentamento ad oltre 50mila persone.
Negli ultimi anni 150 persone sono state rapite e portate nel porto di Askelon, israeliano. Barche speronate e affondate, sequestrate, imbarcazioni colpite al largo dalle raffiche di mitra. Forse a poco vale il tentativo degli internazionali dell'International Solidarity Movement di accompagnare i pescatori durante la loro attività di pesca. Leggo nelle loro parole la sofferenza e la vita che li circonda.
Oliva, bianca, piccola immobile e resistente nel porto di Gaza. Oliva è la barca nata dal progetto di Vittorio fortemente voluto dai pescatori Palestinesi. L'obbiettivo è quello di evitare il sequestro delle barche dei pescatori palestinesi.
Il vento pungente solleva la sabbia che fredda si vendica sulle nostre pelli. Il cielo è scuro, di uno scuro che fa pensare alla pioggia. Qualche pescatore ci spiega che a Gaza, al porto di Gaza la mattina spesso ha quei colori, ma che poi la giornata li trasforma in luce,e luce sarà.

Ci spostiamo verso una manifestazione organizzata dagli artisti palestinesi, nel centro della città.
Lungo il tragitto catturo un'immagine che non mi dimenticherò. Due donne scure per l'abito avvolto cosi stretto ai loro corpi, chinate da un peso tremendo che le rende curve ma stabili, mi accompagnano nel lento e desolante cammino di un piccolo gregge che cerca di pascolare.L'erba è grigia, io da lontano ho l'intera visione. Grigia di un grigio desolante, il verde non esiste, non si vede.
Imparerò poco dopo che il maggior numero dei terreni più fertili oggi a Gaza si trova nella «buffer zone», e dunque di difficile accesso, difficile sopravvivenza.

L'ospedale di Shifa è il più grande ospedale di Gaza. duemila pazienti al giorno, i reparti allestiti sono quello di chirurgia, medicina generale e radiologia.
A causa dell'assedio mancano medicine elettricità e attrezzature.
Nei primi cinque minuti dall' inizio dell'operazione ''Piombo Fuso'' l'ospedale era già iperaffollato. Da allora il team dell'ospedale sta portando avanti un progetto di studio sulle armi non convenzionali utilizzate dall'esercito Israeliano durante quei trenta giorni di bombardamenti.

Alawda è il secondo complesso ospedaliero che visitiamo all'intenro del campo profughi di Jabalia. Nasce per offrire un servizio di cure secondarie a chi ha minori possibilità economiche. Il servizio per il 40% è gratuito. Ostetrica, ginecologia, pronto soccorso, radiologia.
Due piani di scale e ci addentriamo nel reparto ginecologia. Il medico responsabile che con cura ci accompagna lungo la visita della struttura, mi spiega che almeno il 50% dei pazienti giornalieri di tutta la struttura sono le donne che frequentano il suo reparto. Passiamo di fianco alla sala d'aspetto, incorcio gli occhi bassi di alcune donne scure per l'abito adagiate in un attesa che mi sembra eterna.

La sera comincia alla Gallery, uno dei luoghi di ritrovo dei giovani palestinesi. L'idea nata da una lunga elaborazione del convoglio è quella di organizzare un incontro tra le realtà autorganizzate che popolano la striscia di Gaza. Quei visi e quei volti che ci hanno accolto in questi giorni accompagnandoci tra le loro storie, cosi come non fossimo mai stati sconosciuti.
Il movimento del 15 marzo, nato sulla cresta delle rivolte del mondo arabo che prende il nome dalla manifestazione costruita attorno a quella piattaforma di protesta.
Il movimento 5 giugno, in riferimento alla data della conquista israeliana del 1967.
I compagni del GYBO, Gaza Youth for Breaks Out. Un movimento spontaneo, nato dal basso, da un desiderio di riappropriazione delle proprie vite e di perdità di credibilità nelle leadersheap politiche. Nato nel 2010 è sempre stato attivo contro gli abusi economici e politici d'Israele. Perchè la rivendicazione di una libertà democratica che divenga stato, ha necessità di essere spinta su tutti i fronti. Israle assedia Gaza economicamente, militarmente e culturalmente.
Il loro manifesto rende esplicita la convinzione e la necessità di andare oltre le forme partitiche. Ritrovo le stesse parole d'ordine, ritrovo gli stessi bisogni, e mi interrogo sulla forza generatrice di tutto ciò, là, dove l'assedio impedisce qualsiasi forma di immaginazione e d'invenzione sociale. Mi interrogo. Interrogo un pò tutti noi.
Ovviamente il manifesto, ci raccontano, divampa sulle reti internet. Nessuna forma sociologica nuova da interpretare o da studiare, ma un reale bisogno di comunicazione, che in mancanza di mani amiche si disperde nell'etere.
La questione di genere scivola tra gli interventi e fiorisce come una primavera di sogni ed idee. Non sono questioni di religione. Sono contenuti politici che vanno affrontati spinti al loro massimo impegno in una dimensione di eguaglianza sociale. E. è bella, sorridente. Si muove molto. Non sembra timida, anzi parla motlissimo, racconta di se stessa e delle donne che sempre di più prendono coscienza di cosa significhi emanciparsi.

La serata diventa intima quando incontriamo un gruppo di deportati da Betlemme, quando nel 2002 dopo l'invasione della basilica della natività sono stati rinchiusi e deportati a Gaza. Ventisei in tutto i deportati espulsi dalla West Bank, tredici ancora in altre parti del mondo.
Sono stati per quaranta giorni asserragliati dentro la chiesa. E da nove anni non sono mai potuti rientrare.
Trentanove sono in tutto le famiglie deportate in giro per il mondo.
Hanno vissuto due deportazioni ci raccontano, la prima quando sono nati rufugiati, la seconda una vera e propria deportazione obbligata.
È bella la dimensione di lotta che si conserva. Una dimensione che ritrovo anche quando ci interroghiamo sulla questione della memoria collettiva. Quanto incide la questione dei rifugiati nella memoria collettiva, e dunque nel processso di costruzione di uno stato? I nostri figli non vivranno la deportazione, ci raccontano, ma noi saremo ugualmente in grado di narrare loro ciò che significa, quasi a non volere cancellare un pezzo di storia orribile, un'esistenza di stenti, perchè dietro questo c'è la resistenza di un popolo, ma prima ancora indietro nel tempo la storia delle proprie origini, quella che vogliono trasmettere ai loro figli.
Quanto abbiamo io credo da imparare sul dolore e la sofferenza, sulla conservazione della nostra pelle.
«I nostri figli sono i possessori delle chiavi delle nostre case che abbiamo dovuto abbandonare».

In un angolo cerco di afferrare quel patrimonio di sensazioni e racconti che la mia testa va costringendo a rinchiudere in un luogo privilegiato. Mi sento commossa, vicina, strettamente parte di un infinita lotta che vorremmo finisse.
Sono piena di contraddizioni e di paure.
Come diventa difficile allontanarsi da tutti quando vorresti stringerti a loro.
Attenta e serene in questo luogo dove anche Vittorio sapeva sentircisi. Lo immagino. Per ricordarci delle nostre piccole metafore, dei nostri eroi, lo disegnamo e lo cantiamo, sulla carta, sulla pelle.
Non sappiamo far altro. Ma limmagine non è di dolore e io per questo gli sono grata.

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