Emigrazione: la speranza di un futuro migliore, tenendo salde le proprie radici
L'emigrazione è un fenomeno sociale che ha abbracciato milioni di persone, ognuno di noi ha avuto un'esperienza migratoria, diretta o indiretta, attraverso la propria pelle oppure ascoltando i racconti dei nostri avi cercando di immedesimarci nelle emozioni vissute, guardando negli occhi lucidi di colui che racconta le vicende ed entrando nel vivo dei suoi racconti.
Anche nella Bibbia, in una parte del secondo libro “Esodo”, si racconta questo grande fenomeno effettuato dal popolo ebraico che si sposta dall'Egitto in cammino verso la Terra Promessa.
Oltre alla valenza economica, che ha fatto decidere lo spostamento per cause di miseria e per il cambiamento radicale dello stile di vita, sognando una prospettiva migliore per sé e per i propri discendenti, l'emigrazione ha un grande valore psicologico che non può essere sottovalutato. Il distacco dalla terra natia è la prima nota dolente per colui che si appresta ad un lungo spostamento, il luogo dove sei nato, cresciuto e maturato sotto la protezione della propria famiglia deve essere abbandonato e probabilmente mai più rivisto, se non in qualche foto o attraverso qualche racconto.
Molti anni fa era molto difficile ritornare, anche per brevi periodi, nel proprio paese, poiché i trasporti lasciavano molto a desiderare, i tempi per il viaggio erano molto lunghi ed i costi quasi insostenibili. Adesso riavvicinarsi al proprio paese è molto più semplice ed economico e per l'emigrante il distacco è meno traumatico.
In ogni modo, il cambiamento è per l'uomo una grande sfida, l'adattamento è una buona arma per risolvere il disagio e riequilibrare la propria identità che può essere solo smussata dal nuovo ambiente ma non perderà mai la sua qualità originale. Arrivare in un nuovo paese, soprattutto se a molti kilometri di distanza dal nostro, ci disorienta, ci fa perdere, momentaneamente, la nostra spensieratezza e il nostro automatismo, la naturalezza di eseguire i compiti odierni, che avrà bisogno di tempo per mettersi in moto. La prima cosa che cerchiamo è qualcosa che ci ricordi la nostra identità, che la difenda e la riproponga in una nuova veste, qualcosa che, nonostante la lontananza, ci faccia sentire a casa, quindi andiamo alla ricerca di oggetti familiari, di persone del nostro stesso paese o paesi limitrofi, elementi che rendano l'esperienza meno traumatica possibile.
La separazione dalla propria terra è sempre vissuta come una frattura della vita personale, il viaggio verso una nuova meta è interminabile, ricco di pensieri che rimandano ad ogni minimo particolare della vita passata nei luoghi della fanciullezza, mettendosi di impegno a ricordare ogni minimo dettaglio del paesaggio che si sta per lasciare, fotografando con gli occhi ogni albero, ogni pianta, ogni casa da portare con sé nella propria mente e da poter archiviare nel proprio cuore per poterli rispolverare nei momenti più difficili della propria vita, affinché possano dare un minimo di conforto e serenità. Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”, alla fine del capitolo ottavo, dando voce al suo pensiero attraverso uno dei personaggi principali, Lucia Mondella, descrive, in poche righe, magistralmente quanto detto: “Addio, monti sorgenti dalle acque, ed elevati al cielo …”, davvero commovente è la descrizione di ogni parte del paesaggio che si presenta di fronte a Lucia, leggendo quei passi sembra di vedere con gli occhi della protagonista e vivere insieme a lei quel momento toccante, anche se l'emigrazione di Lucia e Renzo è stata forzata da fattori prettamente sentimentali, quindi, a mio parere, la particolare situazione contribuisce a riempire di pathos il racconto ma le parole sono adattabili per ogni emigrazione.
Un altro famoso autore italiano, Cesare Pavese, nel romanzo “La luna e i falò” riesce a spiegare molto bene il pensiero dell'emigrante, il rapporto morboso di odio e amore verso la propria terra e la continua ricerca delle proprie radici, alle quali non ci si può mai staccare: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” Il ricordo del proprio paese è scalfito nel proprio cuore, nessuno può permettersi di affermare il contrario.
Sugli autobus e sui treni, appena arrivati nella propria terra, mi concentro sempre ad osservare gli sguardi delle persone che hanno dovuto abbandonare il proprio paese da molti anni e scorgo in questi un profondo stato di gioia con un pizzico di nostalgia. Gioia per essere ritornati, nostalgia perché quella gioia durerà poco, perché breve sarà la permanenza e quest'ultima sarà un altro tassello nel puzzle dei ricordi che si porteranno dietro in terra putativa. Queste descrizioni sono anche frutto di esperienza personale, anche io come tanti altri, ho dovuto lasciare la mia amata terra ed anch'io porto sempre con me il ricordo di una terra che ha forgiato la mia identità ed il mio spirito testardo e combattente.
Anche nella Bibbia, in una parte del secondo libro “Esodo”, si racconta questo grande fenomeno effettuato dal popolo ebraico che si sposta dall'Egitto in cammino verso la Terra Promessa.
Oltre alla valenza economica, che ha fatto decidere lo spostamento per cause di miseria e per il cambiamento radicale dello stile di vita, sognando una prospettiva migliore per sé e per i propri discendenti, l'emigrazione ha un grande valore psicologico che non può essere sottovalutato. Il distacco dalla terra natia è la prima nota dolente per colui che si appresta ad un lungo spostamento, il luogo dove sei nato, cresciuto e maturato sotto la protezione della propria famiglia deve essere abbandonato e probabilmente mai più rivisto, se non in qualche foto o attraverso qualche racconto.
Molti anni fa era molto difficile ritornare, anche per brevi periodi, nel proprio paese, poiché i trasporti lasciavano molto a desiderare, i tempi per il viaggio erano molto lunghi ed i costi quasi insostenibili. Adesso riavvicinarsi al proprio paese è molto più semplice ed economico e per l'emigrante il distacco è meno traumatico.
In ogni modo, il cambiamento è per l'uomo una grande sfida, l'adattamento è una buona arma per risolvere il disagio e riequilibrare la propria identità che può essere solo smussata dal nuovo ambiente ma non perderà mai la sua qualità originale. Arrivare in un nuovo paese, soprattutto se a molti kilometri di distanza dal nostro, ci disorienta, ci fa perdere, momentaneamente, la nostra spensieratezza e il nostro automatismo, la naturalezza di eseguire i compiti odierni, che avrà bisogno di tempo per mettersi in moto. La prima cosa che cerchiamo è qualcosa che ci ricordi la nostra identità, che la difenda e la riproponga in una nuova veste, qualcosa che, nonostante la lontananza, ci faccia sentire a casa, quindi andiamo alla ricerca di oggetti familiari, di persone del nostro stesso paese o paesi limitrofi, elementi che rendano l'esperienza meno traumatica possibile.
La separazione dalla propria terra è sempre vissuta come una frattura della vita personale, il viaggio verso una nuova meta è interminabile, ricco di pensieri che rimandano ad ogni minimo particolare della vita passata nei luoghi della fanciullezza, mettendosi di impegno a ricordare ogni minimo dettaglio del paesaggio che si sta per lasciare, fotografando con gli occhi ogni albero, ogni pianta, ogni casa da portare con sé nella propria mente e da poter archiviare nel proprio cuore per poterli rispolverare nei momenti più difficili della propria vita, affinché possano dare un minimo di conforto e serenità. Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”, alla fine del capitolo ottavo, dando voce al suo pensiero attraverso uno dei personaggi principali, Lucia Mondella, descrive, in poche righe, magistralmente quanto detto: “Addio, monti sorgenti dalle acque, ed elevati al cielo …”, davvero commovente è la descrizione di ogni parte del paesaggio che si presenta di fronte a Lucia, leggendo quei passi sembra di vedere con gli occhi della protagonista e vivere insieme a lei quel momento toccante, anche se l'emigrazione di Lucia e Renzo è stata forzata da fattori prettamente sentimentali, quindi, a mio parere, la particolare situazione contribuisce a riempire di pathos il racconto ma le parole sono adattabili per ogni emigrazione.
Un altro famoso autore italiano, Cesare Pavese, nel romanzo “La luna e i falò” riesce a spiegare molto bene il pensiero dell'emigrante, il rapporto morboso di odio e amore verso la propria terra e la continua ricerca delle proprie radici, alle quali non ci si può mai staccare: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” Il ricordo del proprio paese è scalfito nel proprio cuore, nessuno può permettersi di affermare il contrario.
Sugli autobus e sui treni, appena arrivati nella propria terra, mi concentro sempre ad osservare gli sguardi delle persone che hanno dovuto abbandonare il proprio paese da molti anni e scorgo in questi un profondo stato di gioia con un pizzico di nostalgia. Gioia per essere ritornati, nostalgia perché quella gioia durerà poco, perché breve sarà la permanenza e quest'ultima sarà un altro tassello nel puzzle dei ricordi che si porteranno dietro in terra putativa. Queste descrizioni sono anche frutto di esperienza personale, anche io come tanti altri, ho dovuto lasciare la mia amata terra ed anch'io porto sempre con me il ricordo di una terra che ha forgiato la mia identità ed il mio spirito testardo e combattente.
Parole sante e veritiere.