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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 84 - 1 Novembre 2011 | 0 commenti

Lo spettro del degiovanimento

Licenziamento sì, licenziamento no. Flessibilità sì, flessibilità no. Il dibattito politico è ormai intrappolato esclusivamente su questi dualismi, ma lo scenario demografico sta aprendo in Italia una seria questione generazionale, da cui discendono nuovi bisogni che non trovano risposta in un ambiente istituzionale e culturale che per varie ragioni non intende alzare quella sbarra verso il futuro.

Da un lato un prolungato calo delle nascite che ridimensiona la base della piramide demografica e il rapporto tra popolazione giovanile e anziana; dall’altro lato un peggioramento nel saldo migratorio, che non aiuta a ribilanciare lo squilibrio demografico e acuisce gli impatti attesi sulle reti di accesso e di protezione sociale. Nel mezzo, una generazione dimenticata dalle recenti manovre e dai mercati, a cui le classi dirigenti hanno riservato non solo il precariato e la disoccupazione quanto piuttosto lo spettro delle nuove povertà.

La prima dinamica riguarda il fenomeno del “degiovanimento”, prospettiva particolarmente accentuata per l’Italia rispetto agli altri Paesi europei. Nel 2010 il rapporto tra giovani (15-24 anni) e anziani (65-74 anni) è drasticamente calato a 0,98 da 1,93 del 1990. Come spesso si è portati a pensare, a modificare la struttura della popolazione e ridurre il peso delle generazioni più giovani non è solo la popolazione che invecchia – perché fortunatamente si vive sempre più a lungo –, ma anche il drastico calo della popolazione autoctona giovanile, specie in prospettiva. Così nel 1990 i residenti italiani d’età compresa tra 15 e 24 anni (quasi 9 milioni) erano 1,93 volte di quelli con età tra 65 e 74 anni (quasi 4,7 milioni), ma oggi lo stesso dato ha ribaltato la struttura demografica ed è pari a 0,71 e, stando alle due fasce d’età considerate di riferimento, nel 2050 gli anziani (7,8 milioni circa) continueranno ad avere la meglio sui giovani (5,6 milioni), almeno in termini di numerosità. Non solo, dunque, all’inizio del millennio per la prima volta i maturi sessantenni-settantenni hanno superato i ventenni, ma anche solo considerando lo “scenario normale” (intermedio tra quello pessimista ed ottimista) disegnato dalle analisi previsionali dell’Istat, nei prossimi decenni il divario demografico si amplierà sempre di più. Tutto ciò non rappresenta una dinamica asettica e una trasformazione normale della struttura della popolazione italiana, ma produce delle dirette conseguenze sulla programmazione della spesa pubblica (già oggi a scapito dei più giovani se si considera il tasso di incidenza della spesa sociale al netto delle pensioni rispetto a quello registrato negli altri Paesi europei), nonché delle ricadute sulla consistenza del corpo elettorale. In un contesto caratterizzato da forte inattività giovanile e scarso ricambio generazionale, negli ambiti più disparati della vita politica ed economica del Paese, tale alleggerimento del peso elettorale dei giovani rischia di favorire ulteriormente la difesa delle posizioni di rendita, di non agevolare la mobilità sociale e di sottorappresentare ulteriormente le istanze politiche delle nuove generazioni.

Le seconda dinamica, invece, ha a che fare con la ripresa degli spostamenti migratori non tanto e solo al Nord dal Mezzogiorno, ma soprattutto verso l’estero, anche da quelle regioni del Centro-Nord caratterizzate fino ad oggi da opportunità di lavoro diffuse e da forte radicamento territoriale. Per la tipologia del dato, che riguarda scelte di lunga durata formalizzate spesso dopo più o meno lunghi periodi di permanenza all’estero, non è possibile utilizzare la categoria dell’evento o del periodo, ma di fatto mediamente, ogni anno, il numero dei cancellati dalle nostre anagrafiche per essere iscritti in quelle estere cresce dell’6,8% in Italia. Ciò potrebbe costituire un segnale precursore che la struttura della società italiana non stia solo diventando sempre più anziana, ma più orientata ad attirare la presenza straniera, funzionale a un mercato del lavoro scarsamente specializzato, e poco incline a trattenere quelle risorse autoctone, spesso giovani, che non vedono nel nostro Paese degli adeguati spazi di sviluppo e delle reali opportunità di valorizzazione delle proprie capacità professionali.

Quelle descritte sono dinamiche demografiche che non creeranno particolari pressioni sul mercato del lavoro domestico e che, paradossalmente, risulteranno accomodanti nel breve periodo, in un contesto di bassa crescita e di non possibilità di ritorno ai livelli occupazionali pre-crisi. Ma che, ancora una volta, impatteranno negativamente sulle possibilità di sviluppo futuro, sul gettito statale, oltre che sull’immagine di un Paese fortemente gerontocratizzato.

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