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Scritto da nel Numero 90 - 1 Giugno 2012, Politica | 0 commenti

La psicosi antipolitica

Uno dei temi più spesso affrontati nei dibattiti politici, giornalistici, sociali ed economici nelle democrazie consolidate è l'esigenza del cambiamento. In ogni dove è questa la parola d'ordine per riscuotere ampio consenso, posto che di fatto i singoli individui che fanno la popolazione sono perennemente insoddisfatti di parte delle dinamiche che caratterizzano la società in cui vivono. A maggior ragione in Italia, dove gli aspetti di cui lagnarsi sono talmente tanti da non riuscire ad individuare una scala di priorità di problemi da risolvere.

Con grande costanza, da decenni i governanti o gli aspiranti tali, a tutti i livelli (quindi dagli amministratori degli Enti locali ai parlamentari e politici nazionali) promettono e annunciano il cambiamento, che puntualmente non si concretizza. D'altro lato, l'italiano medio, lungi dal mettersi in gioco e fare la propria piccola parte per il miglioramento della società, non aspetta altro che i suoi governanti stessi non compiano il loro dovere per poterli severamente criticare.

Il reiterarsi di questo atteggiamento, alimentato dalla pubblicazione dei clamorosi privilegi di cui gode la classe politica e puntellato da azioni inqualificabili dei vari furbetti di Montecitorio e dintorni, ha prodotto nella popolazione italiana una vera e propria psicosi antipolitica, nel senso letterale del termine: fenomeno di eccitazione collettiva caratterizzato da delirio e perdita di contatto con la realtà.

Lungi dal giustificare la classe politica italiana di questi tempi, che in generale sarà probabilmente giudicata indegna dalla storia perché vuota di idee, occorre osservare come questa forma di psicosi, molto comoda per il cittadino medio, consenta di svuotarsi da ogni responsabilità sociale e civile ed individuare nel politico-ladro il colpevole del prezzo della benzina oltremodo caro, delle tasse mai state così alte, dei treni in ritardo, degli anziani soli, dei «troppi extracomunitari» e della buca per strada.

D'altronde, gli stessi politici e amministratori, invece di rispondere a questa psicosi con uno scatto d'orgoglio, mostrando una ritrovata etica professionale e denunciando il cittadino ipercritico invitandolo alla partecipazione civile, preferiscono individuare a loro volta un bersaglio e, da qui, crearne una nuova psicosi. Ecco allora che ora il nemico si materializza nel «grillino» e nei consensi che consegue, che bisogna con tutte le forze limitare, anche a costo di una campagna mediatica tambureggiante e preconcetta.

Per la verità, il Movimento cinque stelle nasce, oltre che da un'innovativa e quasi utopistica idea di gestire la cosa pubblica, anche da quella psicosi anticasta che la politica stessa, terribilmente inefficiente, ha contribuito a far germogliare. Ecco dunque che si decide di combattere un movimento nato da una psicosi con la creazione di un'altra psicosi determinata da quel movimento stesso.

Non è ovviamente la prima volta che i politici italiani etichettano i propri avversari creando una psicosi. Tralasciando il fenomeno Berlusconi, che ha forse creato nella società un'autentica «frattura» sociale («cleavage»), ce n'è stata un'altra che ai più è probabilmente sfuggita: negli anni Novanta, in cui il centrodestra fomentava un rinnovato pericolo comunista (sic), si è via via costruita un'elegante psicosi verso la cosiddetta «sinistra radicale», i cui esponenti, al di là del contenuto delle loro idee, non avevano diritto di credibilità per la popolazione, persino per i tanti che si dicevano di sinistra (ma moderata). La conseguenza di questo bombardamento mediatico imposto ai telespettatori inermi è stato il Partito democratico. Ovvero, la mancanza di un vero partito progressista in Italia.

Tornando al sentimento anticasta, l'italiano medio pare proprio crogiolarsi in questa forma di grossolana psicosi scaricabarile, dimostrandosi poco riflessivo, scontato, quasi sciocco; poiché generalizzando, in pratica considerando i politici «tutti uguali», rischia di perdere una buona occasione per punire o premiare democraticamente il lavoro dei propri governanti. Assegnando loro, singolarmente, una precisa responsabilità politica (accountability). In questo modo, anche se la maggioranza risulterebbe poi colpevole di «inefficienza dolosa», quanto meno si potrebbe avviare un meccanismo di selezione della classe dirigente (bisogna precisare che qui un ruolo fondamentale viene giocato dal sistema elettorale, ma questo è un altro discorso).

Non ci si può meravigliare di questo atteggiamento poco razionale, persino insensato. Del resto l'Italia è stata, ahinoi, da secoli patria di quel movimento generato e tenuto in vita proprio dalla creazione di una miriade di psicosi (e di terrorismo psicologico): la Chiesa cattolica.

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