La vera storia dell'assassino Rajhu
Il ruolo dell'informazione in questa società è realmente delicato ed è utile a mantenere un certo equilibrio nelle coscienze, unicamente rivolte all'esterno e mai proiettate verso se stesse. Da un po' di anni a questa parte i mass media hanno creato la figura del musulmano, integralista religioso, intollerante e nemico della nostra cultura. In Italia (ma non solo), specie durante l'era dei telegiornali interamente fatti di cronaca nera in cui la Lega di Bossi riscuoteva consensi strepitosi, si è pensato di ampliare l'operazione mediatica cercando di far coincidere lo straniero (in particolare se marocchino o rumeno) con il delinquente. L'impresa di formazione di questo luogo comune si può dire su larga scala riuscita.
Ora qui si racconterà la storia di un assassino vero, Charangeet Singh, un quarantunenne di nazionalità indiana che il 19 giugno scorso a Solfora, in provincia di Avellino, armato di coltello da cucina, ha ucciso moglie, figlia di sette anni e poi si è tolto la vita. E' sfuggita al massacro l'altra figlia di tredici anni, ferita non gravemente. La ragione di questo articolo non è assolutamente quella di trovare giustificazioni o riabilitare l'infame criminale. Non avrebbe alcun senso e sarebbe sciocco pensare ciò. Ma visto che alcuni organi di stampa hanno motivato la follia omicida dell'assassino con una sua presunta avversione verso «i costumi troppo occidentali» della moglie, magari è opportuno dare uno sguardo al passato di colui che a Chiaravalle, cittadina dell'entroterra catanzarese dove ha vissuto per circa dieci anni, era da tutti conosciuto come Rajhu.
Il giovane indiano giunse in Italia, come la stragrande maggioranza degli extracomunitari disperati, con mezzi di fortuna e chiaramente senza permesso di soggiorno. Raggiunta Reggio Calabria, si trasferì in seguito a Soverato e saltuariamente eseguiva dei lavoretti a Chiaravalle, per racimolare denaro neppure sufficiente a sbarcare il lunario. Questo è il momento più difficile per l'immigrato alla ricerca dei beni per sopravvivere: senza tutele e formalmente «clandestino», è molto più probabile che trovi degli sfruttatori più che dei datori di lavoro, che come rapaci utilizzano la risorsa umana senza rispetto per la persona umana.
Ma la comunità indiana che via via si va formando a Chiaravalle in linea di massima non viene osteggiata dalla comunità locale, di solito diffidente verso i «forestieri». Così dopo varie peripezie, Rajhu ebbe la grande occasione: un posto di lavoro presso una ditta edile del paese delle preserre, la stessa che gli ha garantito la completa messa in regola e, di conseguenza, l'ottenimento del permesso di soggiorno. Inizialmente Rajhu viaggiava da Soverato e con una vespetta percorreva una ventina di chilometri, tutti i giorni, per recarsi al lavoro; ma poi, grazie alla buona volontà del suo superiore, riuscì a trovare una sistemazione in paese.
Il simpatico ragazzo asiatico e futuro brutale assassino si guadagnò stima e affetto dalla famiglia del proprietario dell'azienda, per i suoi modi gentili e rispettosi e per le sue indubbie capacità sul posto di lavoro: è lui a gestire un magazzino di una delle più grandi ditte edili del circondario. Pienamente integrato nella comunità, Rajhu amava Chiaravalle e avrebbe voluto qui costruirsi una vita con la famiglia; quindi decise di ricongiungersi con moglie e figlie, che non vedeva da parecchi anni ma a cui versava periodicamente parte del salario percepito (le cosiddette «rimesse»). Grazie al supporto, ancora una volta, dei suoi superiori a lavoro – che lo consideravano ormai come un componente della famiglia a tutti gli effetti – la consorte Jasvir e le bambine Simdaujei e Jaspreet raggiunsero finalmente il padre.
Sebbene le bambine frequentassero con profitto la scuola locale, la situazione in questa sfortunata famiglia indiana non era propriamente idilliaca: la bellissima moglie aveva atteggiamenti spesso scontrosi nei confronti del marito. Le figlie comunicavano poco col padre, chissà, per via della sua lunga forzata latitanza dal suo ruolo naturale. Ciò che molto probabilmente scompaginò definitivamente l'equilibrio di coppia fu la richiesta, da parte di Jasvir, di lasciare Chiaravalle e trasferirsi a Solfora, dove risiede un'altra comunità indiana. Il perché di quella che era diventata una pretesa non si conoscono, c'è chi azzarda questioni sentimentali parallele. Ad ogni modo costò immensamente a Rajhu, dopo aver provato invano a convincere la consorte della insensatezza della scelta, lasciare un posto di lavoro ben retribuito e regolare in una comunità dove aveva tanta gente che gli voleva sinceramente bene. Era diventato praticamente un cittadino chiaravallese, uno dei non frequenti casi (purtroppo, al meridione) di «integrazione» riuscita e costruttiva per tutti. Aveva insomma realizzato il suo sogno.
Giunta in uno dei piccoli centri della conceria campana, la famiglia Singh precipitò subito in una condizione economica ai limiti della sopravvivenza. Poi la disoccupazione e i litigi. Quindi l'efferato e spietato massacro. Imprevedibile. Ingiustificabile. Che spezza la vita di una giovane donna e di una piccola creatura e lascia sola al mondo una bambina. Le lacrime di un paese, Chiaravalle, che ha appreso stupefatto e sgomento della follia di un suo concittadino, sono tutte per loro.
Ora qui si racconterà la storia di un assassino vero, Charangeet Singh, un quarantunenne di nazionalità indiana che il 19 giugno scorso a Solfora, in provincia di Avellino, armato di coltello da cucina, ha ucciso moglie, figlia di sette anni e poi si è tolto la vita. E' sfuggita al massacro l'altra figlia di tredici anni, ferita non gravemente. La ragione di questo articolo non è assolutamente quella di trovare giustificazioni o riabilitare l'infame criminale. Non avrebbe alcun senso e sarebbe sciocco pensare ciò. Ma visto che alcuni organi di stampa hanno motivato la follia omicida dell'assassino con una sua presunta avversione verso «i costumi troppo occidentali» della moglie, magari è opportuno dare uno sguardo al passato di colui che a Chiaravalle, cittadina dell'entroterra catanzarese dove ha vissuto per circa dieci anni, era da tutti conosciuto come Rajhu.
Il giovane indiano giunse in Italia, come la stragrande maggioranza degli extracomunitari disperati, con mezzi di fortuna e chiaramente senza permesso di soggiorno. Raggiunta Reggio Calabria, si trasferì in seguito a Soverato e saltuariamente eseguiva dei lavoretti a Chiaravalle, per racimolare denaro neppure sufficiente a sbarcare il lunario. Questo è il momento più difficile per l'immigrato alla ricerca dei beni per sopravvivere: senza tutele e formalmente «clandestino», è molto più probabile che trovi degli sfruttatori più che dei datori di lavoro, che come rapaci utilizzano la risorsa umana senza rispetto per la persona umana.
Ma la comunità indiana che via via si va formando a Chiaravalle in linea di massima non viene osteggiata dalla comunità locale, di solito diffidente verso i «forestieri». Così dopo varie peripezie, Rajhu ebbe la grande occasione: un posto di lavoro presso una ditta edile del paese delle preserre, la stessa che gli ha garantito la completa messa in regola e, di conseguenza, l'ottenimento del permesso di soggiorno. Inizialmente Rajhu viaggiava da Soverato e con una vespetta percorreva una ventina di chilometri, tutti i giorni, per recarsi al lavoro; ma poi, grazie alla buona volontà del suo superiore, riuscì a trovare una sistemazione in paese.
Il simpatico ragazzo asiatico e futuro brutale assassino si guadagnò stima e affetto dalla famiglia del proprietario dell'azienda, per i suoi modi gentili e rispettosi e per le sue indubbie capacità sul posto di lavoro: è lui a gestire un magazzino di una delle più grandi ditte edili del circondario. Pienamente integrato nella comunità, Rajhu amava Chiaravalle e avrebbe voluto qui costruirsi una vita con la famiglia; quindi decise di ricongiungersi con moglie e figlie, che non vedeva da parecchi anni ma a cui versava periodicamente parte del salario percepito (le cosiddette «rimesse»). Grazie al supporto, ancora una volta, dei suoi superiori a lavoro – che lo consideravano ormai come un componente della famiglia a tutti gli effetti – la consorte Jasvir e le bambine Simdaujei e Jaspreet raggiunsero finalmente il padre.
Sebbene le bambine frequentassero con profitto la scuola locale, la situazione in questa sfortunata famiglia indiana non era propriamente idilliaca: la bellissima moglie aveva atteggiamenti spesso scontrosi nei confronti del marito. Le figlie comunicavano poco col padre, chissà, per via della sua lunga forzata latitanza dal suo ruolo naturale. Ciò che molto probabilmente scompaginò definitivamente l'equilibrio di coppia fu la richiesta, da parte di Jasvir, di lasciare Chiaravalle e trasferirsi a Solfora, dove risiede un'altra comunità indiana. Il perché di quella che era diventata una pretesa non si conoscono, c'è chi azzarda questioni sentimentali parallele. Ad ogni modo costò immensamente a Rajhu, dopo aver provato invano a convincere la consorte della insensatezza della scelta, lasciare un posto di lavoro ben retribuito e regolare in una comunità dove aveva tanta gente che gli voleva sinceramente bene. Era diventato praticamente un cittadino chiaravallese, uno dei non frequenti casi (purtroppo, al meridione) di «integrazione» riuscita e costruttiva per tutti. Aveva insomma realizzato il suo sogno.
Giunta in uno dei piccoli centri della conceria campana, la famiglia Singh precipitò subito in una condizione economica ai limiti della sopravvivenza. Poi la disoccupazione e i litigi. Quindi l'efferato e spietato massacro. Imprevedibile. Ingiustificabile. Che spezza la vita di una giovane donna e di una piccola creatura e lascia sola al mondo una bambina. Le lacrime di un paese, Chiaravalle, che ha appreso stupefatto e sgomento della follia di un suo concittadino, sono tutte per loro.