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Scritto da nel Il Libro del Viaggiatore, Numero 93 - 1 Ottobre 2012 | 0 commenti

“Il fallimento dell’università italiana” di Simone Colapietra

“Il fallimento dell’università italiana” di Simone Colapietra

Incontriamo Simone Colapietra, studente universitario di Economia e commercio, autore del libro “Il fallimento dell’università italiana”, edtio da Cerebro, in cui affronta una dura critica al sistema universitario italiano, in particolare della riforma 3+2.Ciao Simone e grazie per l’attenzione rivolta alla nostra testata. Cominciamo ad esaminare qualche aspetto del tuo libro. Individui la crisi dell’Università nel 3+2. Tale riforma, come quella dei crediti, vuole essere una strada per uniformare i meccanismi di valutazione a livello europeo. Non credi sia opportuno distinguere tra gli obiettivi della riforma e la reale applicazione, richiamando cioè le responsabilità degli attori dell’università (il corpo docente in particolare) e non scaricando sempre sulla politica le responsabilità?

Sicuramente la riforma è stata applicata in malo modo da parte di un corpo docente probabilmente impreparato a simili novità. Nel mio libro, però, l’analisi è incentrata su dati oggettivi del 3+2 e dei crediti. Mi spiego meglio: anche se la riforma fosse stata applicata diversamente sarebbe comunque uno scempio. È il 3+2 in sé il problema. Il sistema dei crediti misura la quantità di studio di ogni studente. Santo cielo! Come si può misurare in maniera standard quanto uno studia? È una follia. E poi quello che vorrei sottolineare riguarda proprio l’uniformarsi con l’estero. Smettiamola con questo luogo comune che all’estero le cose sono migliori. Il sistema universitario italiano necessitava di una svecchiata, questo è sicuro, ma non c’era bisogno del 3+2. Non è possibile suddividere una materia in “base” e “specialistica”, è un’assurdità da telefilm americano. Stesso discorso per i crediti. I nostri atenei preparavano bene gli studenti. Basti pensare che la classe docente che si è laureata negli anni Settanta ha spesso proseguito gli studi e la ricerca all’estero, a dimostrazione del fatto che i nostri laureati potevano competere con quelli stranieri.

Quali sono secondo te i meccanismi per migliorare l’Università? Meno esami? Certificazione di inglese (tipo TOEFL, IELTS) inclusa in ogni percorso? Numero chiuso per selezionare a monte? Meccanismi di tassazione disincentivante per chi non studia? Conoscenze pratiche del pacchetto office?

Rispondo con ordine. Anzitutto meno esami. In passato un corso di laurea quadriennale prevedeva circa 20 esami. Oggi nel solo triennio ce ne sono 20. Di questa cosa ne parlo dettagliatamente nel libro. Sostanzialmente ciò che si studia è lo stesso, la differenza è che i vecchi esami sono stati spezzettati, ma le materie sono le stesse. Lo spezzettamento compulsivo ha creato nuove cattedre inutili. La certificazione d’inglese è spesso un pro forma. Abbiamo laureati che non sanno parlare l’italiano, figuriamoci l’inglese. Le lingue straniere si imparano sul campo, viaggiando e facendo esperienza all’estero. Questi titoli non sempre corrispondono al reale livello linguistico. E lo dico da persona con diploma Ket e Pet dell’università di Cambridge. L’inglese l’ho imparato viaggiando, non con quei corsi. Stesso discorso per il francese, di cui non ho nessun titolo altisonante.
Sul numero chiuso ho scritto abbondantemente. È un meccanismo che crea correzioni e distorsioni contemporaneamente. È correttivo perché frena l’eccesso di laureati, ma allo stesso tempo crea distorsioni nel mercato del lavoro, perché, come spiego nel libro, potrebbe esserci, ad esempio, un numero di medici inferiore alle necessità se si sbagliano i conti. Ricorda vagamente il sistema comunista di produzione centralizzata. Conosciamo i devastanti effetti economici. In ogni caso quello che propongo è di fare una scrematura durante il percorso e non prima, come sostanzialmente succedeva nel vecchissimo ordinamento. La tassazione disincentivante è già applicata nei nostri atenei, specialmente a carico dei fuori corso. Condivido pienamente. L’ultima domanda aprirebbe uno scenario troppo ampio per essere discusso in questa sede. Conoscenza pratica e università sono due ossimori che la nostra riforma ha forzatamente abbinato. C’è un analfabetismo informatico dilagante. Il fatto di essere laureato non significa che occorra saper usare il computer. Certamente saper usare determinati applicativi è positivo, ma non è questo che l’università deve fornire! L’università è la roccaforte della cultura, non di conoscenze pratiche o professionali.

Parli di scindere il mondo accademico da quello professionale. Come pensi che questo aiuti l’inserimento nel mondo del lavoro? Non dovrebbero invece i due mondi cercare di trarre l’uno linfa dall’altro?

È proprio questo il paradosso della fallimentare riforma del 3+2. La ratio legis era quella di dare un titolo (la laurea triennale) subito spendibile nel lavoro. Il problema è che ciò ha abbassato l’asticella delle difficoltà, causando la massificazione dell’università. Anche la tv ha fatto danni in questo senso: tutti puntano al lavoro in giacca e cravatta o in camice bianco. Tutti laureati. Un esercito di laureati disoccupati. Ecco perché l’università è parzialmente complice della disoccupazione. In Italia ci sono figure professionali in sottoccupazione come sarti, falegnami, pasticcieri perché questi lavori non vuole farli più nessuno.
Il secondo grande fiasco
è che la laurea triennale come quella specialistica non prepara al lavoro. Le aziende si lamentano proprio di questo. È normale! La professione si impara sul campo, non sui libri. Ecco perché dico che l’università deve fornire il sapere, non le conoscenze pratiche. Quelle deve darle l’apprendistato.

Infine non credi che la crisi dell’Università risieda anche negli studenti, che si laureano senza essere responsabili di ciò che hanno appreso?

È vero. Ma gli studenti sono solo l’ultimo anello del sistema. Mi spiego meglio. Oggi gli esami universitari sono un coacervo di nozioni mal spiegate e peggio studiate. Ma è lo studente che sceglie questo o è il sistema che gli serve il minestrone di nozioni? È chiaro che lo studente con la esse maiuscola provvederà autonomamente ad approfondire, sempre nei limiti del possibile perché gli esami sono tanti e il tempo sempre meno. Quindi, per rispondere alla domanda, gli studenti sono in parte responsabili, ma se l’università fosse come quella del passato lo studente senza senso critico avrebbe delle difficoltà pratiche nello studio, cosa che invece oggi non succede perché la didattica è appiattita e standardizzata (a tal proposito rimando al mio libro in cui parlo dell’uso scellerato delle slide durante le spiegazioni).

Grazie Simone. Ricordiamo che chi fosse interessato ad acquistare il tuo libro lo può trovare nelle librerie Feltrinelli, nelle librerie Edicolé del gruppo Mondadori e nelle librerie indipendenti, e in formato cartaceo e digitale sui principali bookstore (Amazon, Feltrinelli, IBS, Libreria universitaria) al prezzo di copertina di 10 euro.

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