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Scritto da nel Internazionale, Numero 94 - 1 Novembre 2012 | 0 commenti

Il Nobel per la pace all'Unione Europea e la primavera araba

Una delle notizie di curiosità internazionale più sorprendenti del mese è senz'altro l'assegnazione all'Unione Europea del premio Nobel per la pace 2012. Insomma, proprio nel periodo in cui i 27 Paesi membri del consesso continentale faticano a trovare un accordo sui temi di politica economica (e non solo) e i cittadini stessi guardano alle istituzioni europee con sempre maggiore insofferenza, ecco giungere, inaspettato, uno dei più ambiti riconoscimenti dalla Reale Accademia Svedese.


Non è la prima volta che il Nobel per la pace finisce nelle bacheche di personaggi o organizzazioni che, probabilmente, non sono immediatamente identificabili con uno dei più alti valori dell'umanità. In ordine cronologico, basti pensare a Henry Kiessinger, insignito del premio nel 1973 insieme a Le Duc Tho (che invero lo rifiutò) per gli sforzi elargiti nel negoziare gli accordi di pace di Parigi che misero la parola fine alla guerra del Vietnam. Oppure alla medesima gratificazione ottenuta dall'Organizzazione delle Nazione Unite e dal suo presidente Kofi Annan nel 2001 «per il loro lavoro per un mondo meglio organizzato e più pacifico». Fino ad arrivare al premio alle buone intenzioni assegnato a Barak Obama nel 2009, mentre gli Stati Uniti erano ancora impegnati in un paio di conflitti bellici in Iraq e Afghanistan. Dunque, non mancano simpatici precedenti nell'albo d'oro di questo significativo titolo. Anzi, si può affermare che in diverse circostanze il premio Nobel per la pace ha voluto assumere un significato politico, d'incoraggiamento, per sostenere istituzioni che potenzialmente avrebbero la capacità e la forza di esercitare un ruolo di primo piano nel promuovere, in concreto, i valori di democrazia, uguaglianza, rispetto dei diritti umani. Ciò spiegherebbe perché Thorbjørn Jagland, presidente del Comitato per il Nobel nonché europeista convinto, abbia caldeggiato questa scelta in un momento così insidioso per l'Unione Europea.

Per una riflessione più attenta, è opportuno rileggere le motivazioni ufficiali che hanno accompagnato questa decisione: «L'Unione e i suoi membri per oltre sei decenni hanno contribuito al progresso della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa. Durante gli anni della guerra, il comitato norvegese per il Nobel ha assegnato il riconoscimento a persone che hanno lavorato per la riconciliazione tra Germania e Francia. Dal 1945, la riconciliazione è divenuta realtà. La sofferenza terribile patita durante la Seconda Guerra mondiale ha dimostrato la necessità di una nuova Europa. In 70 anni Germania e Francia hanno combattuto tre guerre. Oggi un conflitto tra Berlino e Parigi è impensabile. Ciò dimostra come, attraverso sforzi ben mirati e la costruzione di una fiducia reciproca, nemici storici possano divenire partner. Negli Anni '80, Grecia, Spagna e Portogallo sono entrati nell'Unione. L'instaurazione della democrazia è stata la condizione per la loro adesione. La Caduta del Muro di Berlino ha reso possibile l'ingresso a numerosi Paesi dell'Europa centrale e orientale, aprendo una nuova era nella storia d'Europa. Le divisioni tra Est e Ovest sono in gran parte terminate, la democrazia è stata rafforzata, molti conflitti su base etnica sono stati risolti. L'ammissione della Croazia, il prossimo anno, l'apertura di negoziati con il Montenegro, e il riconoscimento dello status di candidato, sono passi per rafforzare il processo di riconciliazione nei Balcani. Nell'ultimo decennio, la possibilità di una adesione della Turchia hanno fatto progredire la democrazia e i diritti umani nel Paese. L'Ue sta affrontando una difficile crisi economica e forti tensioni sociali. Il Comitato per il Nobel vuole concentrarsi su quello che considera il più importante risultato dell'Ue: l'impegno coronato da successo per la pace, la riconciliazione e per la democrazia e i diritti umani. Il ruolo di stabilità giocato dall'Unione ha aiutato a trasformare la gran parte d'Europa da un continente di guerra a un continente di pace. Il lavoro dell'Ue rappresenta la “fraternità tra le Nazioni”, e costituisce una forma di “congressi di pace” ai quali si riferiva Alfred Nobel nel 1895 come criterio per il premio Nobel per la pace».

Le ragioni storiche sono condivisibili. Nel secondo dopoguerra, la pacificazione del continente è passata anche attraverso l'evoluzione della Comunità Economica Europea, anche se allora tutto è dipeso dal mantenimento del fragile equilibrio bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. E non si può negare come i requisiti richiesti per inoltrare domanda di adesione all'Ue abbiano spronato diversi Paesi ad intraprendere la positiva strada delle riforme di stampo democratico e della salvaguardia dei diritti umani. Tuttavia, anche dal punto di vista storico si potrebbe obiettare un agire diplomatico discutibile dell'Ue, ad esempio nei Balcani: dapprima timido e sicuramente non tempestivo in Bosnia, piuttosto confuso e non del tutto condiviso in Kosovo. In ogni caso, nel cuore del Vecchio continente è stata in qualche modo «permessa» una guerra sanguinaria e crudelissima in ex Jugoslavia proprio in età contemporanea, quando si pensava (sperava) che questo metodo di risoluzione dei conflitti dovesse appartenere solamente a culture lontane dalla nostra.

Per non parlare dell'azione odierna dei Paesi europei per l'affermazione dei diritti umani. La primavera araba è stata, ed è ancora, un'occasione forse irripetibile per innescare un meccanismo virtuoso d'evoluzione della società e della politica in aree che non hanno mai conosciuto la democrazia. Ed anche per instaurare delle relazioni diplomatiche e commerciali significative, che permettano ad entrambe le parti di intraprendere nuovi sentieri di sviluppo umano e non solo meramente economico. Forse non c'è la percezione di quanto potrebbe essere positiva una vera amicizia, pure istituzionale, fra i popoli arabi del mediterraneo e quelli europei. Di fatto, la passività e l'impotenza – l'assenza – della politica diplomatica dell'Ue nelle vicende della cosiddetta primavera araba è sconcertante e sconfortante.

In conclusione, è difficile capire perché il Nobel per la pace sia stato consegnato nelle mani di tre eurocrati – Herman Van Rompuy, José Manuel Barroso e Martin Schulz (per altro i primi due non legittimati direttamente dal popolo in senso strettamente democratico) – piuttosto che assegnato a donne o uomini o organizzazioni che sul campo si battono per il rispetto dei diritti umani. Codesto premio potrebbe avere un senso solo se, in un futuro prossimo, servisse da pungolo ai membri dell'Ue per perseguire, tutti insieme, finalmente, un'opera di politica estera che promuova la pace in maniera attiva e senza compromessi. L'occasione per porre in essere le buone intenzioni, qualora ve ne siano, si è presentata proprio alle porte di casa: i popoli del Maghreb e del Medio Oriente che hanno dimostrato, pagando a caro prezzo, la volontà di imprimere una svolta alla loro società non attendono altro che un sostegno saggio ed affidabile per proseguire l'intrapreso cammino verso la democrazia e, se possibile, la giustizia sociale.

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