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Scritto da nel Numero 101 - 1 Luglio 2013, Politica | 0 commenti

Noi e gli altri

Noi e gli altri

Nel mondo occidentale prevale, sul piano culturale e relazionale, il modello  assertivo che porta ad affermare il proprio <sé> in ogni situazione.

E’ un  approccio che  comporta una difficoltà ad immaginare  un mondo di valori  non   centrato sull’affermazione dell’individuo. Questa convinzione ha le sue radici nell’etnocentrismo: pensare  che il proprio orizzonte culturale sia l’unico di cui vale la pena interessarsi perché superiore a tutti gli altri. E’ un  modello che,  purtroppo,  è stato nel tempo  esportato o copiato in altri contesti socio-culturali.

Questo atteggiamento  determina, di conseguenza, una stratificazione della dicotomia <noi – altri>  e quindi di due mondi diversi e in gran parte incompatibili.

Il principale sostenitore di questa tesi è Claude Lévi-Strauss, considerato un mostro sacro dell’antropologia europea. Lo studioso francese in occasione dell’assemblea internazionale dell’UNESCO (Parigi, 21 gennaio 1971)  con una metafora, tanto suggestiva nella forma quanto inquietante nella sostanza, ha proposto questo enunciato: “Le culture sono come i treni che corrono ciascuno nelle proprie rotaie, alla propria velocità, verso le proprie direzioni, … ma se su un binario parallelo passa un treno che va in un’altra direzione, noi percepiamo un’immagine vaga , fugace, quasi uno sfarfallio momentaneo nel nostro campo visivo… qualcosa che serve solo ad irritarci perché interrompe la nostra placida contemplazione del paesaggio”.

Secondo questa teoria, ogni membro di una cultura  è legato ad essa  come il viaggiatore lo è al treno su cui viaggia.  <Gli altri> restano fuori dal nostro mondo, anzi ci irritano perché non hanno niente da insegnarci. Noi ce ne stiamo, per conto nostro, sul treno confortevole che va per la sua strada mentre sulle strade vicine e parallele succedono cose che non ci riguardano.

Semplificando questo modello di pensiero,  si può dire che gli italiani, i francesi, o altri popoli di un medesimo contesto culturale, possono capire se stessi e il proprio mondo, ma non quello dei <non appartenenti>.

Ma  il nostro treno non attraversa anche le contrade  degli <altri> e le loro storie ?

Purtroppo, nell’ambito di questa visione riduttiva e parziale  trova humus favorevole  la contrapposizione sistematica tra <noi> e <gi altri>, tra occidente e <resto del mondo>, tra ariani e semiti  che nel secolo scorso ha prodotto atroci e  nefaste conseguenze e che, in forme diverse perdurano,  purtroppo, ancora oggi in varie parti del mondo.

E’ pur vero che la distanza tra <noi> e <gli altri> non sempre si coglie nella quotidianità delle relazioni tra  persone,  mentre cresce sovente e si alimenta  nel territorio  del potere e delle ideologie . Qui soprattutto  <gli appartenenti > e <i non appartenenti> diventano categorie separate . Qui la soluzione dei problemi che si pongono in una società multiculturale e globalizzata viene identificata nell’esclusione  dei < non appartenenti>.

Agli <altri> viene negato il diritto di cittadinanza nel mondo del <noi> perché questa condizione  viene declinata in relazione a tradizioni e vicissitudini diverse che le persone hanno vissuto. E questa diversità viene invocata  per negare o limitare il  diritto di cittadinanza, prerogativa  che ha   fondamento  naturale.

L’esclusione  inizialmente viene pensata in termini spaziali ma poi, come mostrano la storia e la cronaca, essa spesso sfocia nell’annientamento fisico dei gruppi  considerati diversi e nemici.

Al di là di ogni altra considerazione, la metafora del treno  accredita  una concezione autistica della cultura che  appare decisamente datata  anche in relazione ai molteplici  mutamenti geopolitici  e socio-culturali.

La ricerca antropologica più recente, infatti, insegna che, in un mondo globalizzato e segnato da  crescenti   reti di interconnessione,  “le differenze le incontri nel tuo quartiere e ciò che è familiare lo trovi all’altro capo del mondo” (Clifford, 1988). Oggi sperimentiamo situazioni in cui le differenze emergono in modo   sempre più sfumato e i confini tra le varie culture sono diventati piuttosto permeabili. I processi culturali si verificano nelle zone di contatto costituite da  organizzazioni che includono soggetti di differenti estrazioni  etniche e culturali.

La contrapposizione si può e si deve superare sviluppando  la capacità di saper vedere le differenze, di coglierle  senza cristallizzarle in stereotipi come:     “L’uomo nero”, “la donna araba”, “la badante rumena” e così via. Si supera soprattutto scrollandosi di dosso la bardatura etnocentrica  costruita nel corso della propria  formazione a volte anche nella famiglia e nella scuola.

La diversità non può essere utilizzata strumentalmente  per negare o limitare il diritto di cittadinanza che deve essere costruito su base  plurale e interculturale.

L’affermazione della propria identità culturale e/o religiosa si raggiunge  percorrendo la strada, a volte aspra e comunque necessaria, della “unità nella differenza”.

Solo se l’idea di cittadinanza  si apre a nuove prospettive, meno etnocentriche  e più multivocali,  si riconoscerà anche agli <altri> il diritto di cittadinanza  nel nostro mondo.

E’ un impegno di civiltà, è una scelta di democrazia. Questa  è autentica solo e se le differenze – di colore, di fedi, di metodi, di genere – riescono a coesistere e convivere pacificamente.

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