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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 117 - 1 Marzo 2015 | 0 commenti

Persona e libertà nel pensiero di Rousseau

Persona e libertà nel pensiero di Rousseau

Nella storia della politica, il nome del pensatore Jean Jacques Rousseau (Ginevra 1712- Ermenonville 1778) è legato prevalentemente alla teoria del “CONTRATTO SOCIALE” (1762), di chiara matrice illuministica, che contribuì a mettere in soffitta “ l’ Ancien régime” delle monarchie assolute, sostituendo “la volontà generale” agli “editti regi”.

Senza entrare nel merito, annotiamo che Rousseau è stato anche interpretato come filosofo utopistico , vagheggiatore di rimedi come il livellamento delle classi sociali avendo come riferimento la sola c lasse borghese. Alla luce di un’analisi critica più approfondita del pensiero roussoiano possiamo affermare che tale interpretazione riduttiva appare ormai superata. La sostanza feconda della sua riflessione è da ricercarsi nell’intuizione dello “uomo della natura” e nell’istanza democratica del merito personale, cioè nel riconoscimento di ogni individuo umano con i suoi particolari meriti e bisogni.

La parte viva e attuale del pensatore ginevrino, più che nel “CONTRATTO” (opera citata) – che offre una soluzione egualitaria limitatala alla classe borghese – è da ricercarsi nel DISCORSO SULL’ORIGINE E I FONDAMENTI DELLA DISUGUAGLIANZA TRA GLI UOMINI (1755). In questa opera – vero manifesto della democrazia moderna – viene prospettata una soluzione che trascende la visione borghese.

Per Rousseau, padre spirituale della moderna democrazia, la coscienza morale consiste nel sentimento della umanità o amore umanitario. L’amore degli uomini, derivato dall’amore di sé, è il principio della giustizia umana. L’impulso della coscienza nasce dal “doppio rapporto” a se stessi e ai propri simili. La spiegazione di questo doppio rapporto, in cui è radicata la coscienza, sta nella fondamentale relazione di ciascuno di noi stessi con Dio-Universale trascendente, Autore del mio e dell’altrui essere. Per cui l’amore di sé e l’amore del proprio simile si confondono e coincidono. Qui si ritrova il significato dell’affermazione che è per amore di Dio che si deve amare l’altro, il come se stesso.

Nell’EMILIO (1762) Rousseau afferma: ”Quando la mia anima si identifica con il mio simile, io mi sento in lui, per non soffrire io voglio che egli non soffra e mi interesso a lui per amore di me stesso”.

Si evidenzia qui un accentuato egotismo morale-religioso in cui però si annida la persona come individuo-valore, persona originaria: individuo investito di universalità.

Il significato delle famose formule roussoiane “uomo della natura” e “ritorno alla natura” si spiegano e acquistano una luce particolare se si proiettano su questo sfondo cristiano e romantico che caratterizza il pensiero di Rousseau.

Quando nel “CONTRATTO” (opera citata) affronta il problema della società politica, Rousseau avverte che bisogna fare in modo di non guastare l’”uomo della natura” nell’appropriarlo alla società. E’ la ben nota difficoltà che Rousseau tenta di superare e che si può così enunciare: l’uomo della natura, nel diventare sociale-politico, deve salvare la specifica integrità di persona originaria, investita di valori a priori, in virtù di quella unione con l’Universale trascendente e metastorico che è Dio.

Tale difficoltà si ripete puntualmente nella formulazione del problema fondamentale che il contratto sociale deve risolvere: l’esigenza di “trovare una forma di associazione che difenda e protegga la persona e i beni di ogni associato per cui ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca che a se stesso e resti libero come prima”.

L’istanza della “volontà generale” , avendo il suo fondamento ideologico nella “coscienza morale” cioè nel sentimento dell’umanità o amore umanitario, stabilisce un’eguaglianza formale, astratta e giuridica e, come tale, non sarà eguaglianza intrinseca e sostanziale richiesta dall’atto storico della convivenza.

Per chiarire meglio questo concetto sarà bene riprendere brevemente la conclusione del “DISCORSO” (opera citata). Qui il Rousseau afferma che la disuguaglianza morale è contraria al diritto naturale, ogni volta che non segua la disuguaglianza fisica di forza e talento.

L’uguaglianza è concepita in funzione della libertà e della persona. Per Rousseau la persona è l’uomo astratto e pre -sociale, lontano dalla convivenza o socialità in cui acquista un senso positivo e specifico l’istanza dell’uguaglianza.

Appare qui evidente che la soluzione contrattualistica russoiana risulta un mezzo troppo estrinseco e artificiale, atto a giustificare solo una mera libertà politica. Il Patto sociale, infatti, istituisce un’eguaglianza morale tra gli uomini tale che questi, pur potendo essere diseguali di forza e talento, diventano tutti uguali per convenzione, cioè per il fatto che essi alienano tutti i diritti dell’individuo alla comunità. Si tratta, come si diceva, di un’eguaglianza formale e artificiale, ossia di diritto positivo o di fronte alla legge.

In questa teoria resta implicito lo squilibrio tra libertà e giustizia che infirma le premesse del “patto sociale” russoiano, riconosciuto come modello di democrazia della classe borghese e non della democrazia di tutti indistintamente.

Indubbiamente la tentata soluzione di questo squilibrio, mediante la clausola del contratto, contributi storicamente a realizzare l’uguaglianza umanitaria con la sostituzione della “legge”, espressione della “volontà generale”, alle “lettere patenti” e agli editti regi. Rousseau, che voleva emancipare il popolo, fornì le ragioni ideali per la emancipazione di una classe soltanto: la borghesia. Da questo quadro ideologico resta fuori l’uomo comune ossia l’uomo sociale per eccellenza.

Tuttavia in questo quadro storico-concettuale si può cogliere il “Rousseau vivo”, ciò che della sua problematica filosofico-politica non è storicamente esaurito. E’, appunto quel quid che trascende storicamente la rivoluzione borghese e che perciò può concorrere allo sviluppo ulteriore della democrazia moderna.

Il quid risolutore del problema si può individuare nel passaggio dalla “libertà civile” alla “libertà egualitaria” che si attua in una società autenticamente democratica, egualitaria e non livellatrice

Nel contesto del modello giusnaturalistico e contrattualistico russoiano si realizza soltanto la “libertà civile”: è la libertà dei membri della società civile garantita politicamente dalla separazione dei poteri. Essa si concretizza nella libera iniziativa economica, nella sicurezza della proprietà privata, nella libertà di coscienza, di culto, di stampa.

La “libertà egualitaria”, o libertà di eguali, è la libertà di tutti non di pochi e consiste nel diritto di chiunque al riconoscimento sociale delle sue personali qualità e capacità. E’ l’istanza democratica e universale del merito, cioè del potenziamento sociale dell’individuo: è la libertà in funzione della giustizia che chiamiamo “libertas maior”. In una democrazia moderna e reale che interpreti le istanze di tutti gli strati sociali si deve instaurare questo tipo di libertà per riparare alle deficienze della “libertà civile”.

La “libertà egualitaria”, per potersi attuare presuppone una società reale che si costituisce come corpo sovrano e autorevole. All’interno di questo “corpus” ciascuno dei suoi membri si realizza come soggetto, libero di sviluppare le proprie potenzialità. Infatti l’istanza della libertà egualitaria valorizza e corrobora i diritti di ciascun membro.

In questo quadro concettuale, rintracciabile, come si diceva, nel pensiero del filosofo ginevrino, in particolare nel “Discorso” (opera citata) vengono riscattati i diritti soggettivi di tutti e non solo i privilegi (borghesi) di alcuni.

 

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