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Scritto da nel Internazionale, Numero 123 - 1 Ottobre 2015 | 0 commenti

Botte da Orban

Botte da Orban

 

In questo mese di settembre appena trascorso, nei media di tutto il pianeta, abbiamo assistito a un pot-pourrì di immagini al limite dell’incredibile, per una generazione che non ha conosciuto in Europa occidentale gli orrori della guerra. Le scene delle deportazioni di massa e degli scontri alle frontiere fra migranti e polizie di Stato, nonché le istantanee dei volti disperati di individui che non hanno alcuna prospettiva se non quella di trovare rifugio in un qualsivoglia “buco” libero dell’Occidente ancora opulento, sono state la coreografia migliore per esaltare le aperture della cancelliera tedesca Merkel nei confronti del mondo esule ed “affamato”. Se non fosse che tali aperture disponevano di una molla potente che si è prontamente richiusa ai primi affanni gestionali.

Una scossa salutare, per la sonnecchiante e riottosa opinione pubblica europea, si è in effetti avuta con i truci filmati diffusi dai media ma alla resa dei conti, rispetto al problema della sperequazione fra nazioni sviluppate e Terzo mondo e del conseguente epocale esodo da quelle terre lontane e martoriate, si continua tuttora, nella migliore delle ipotesi, a far spallucce e, nella peggiore, a pretendere di risolvere la questione innalzando muri di medievale memoria, come se dimorassimo, noi occidentali, dentro una piccola inespugnabile fortezza.

A parte la memoria corta, ormai una costante delle attuali generazioni, che ha già resettato dalla mente la guerra nei vicini Balcani, quel conflitto fra diverse etnie che, solo vent’anni fa, fece infiniti lutti nell’indifferenza di belgi, spagnoli, danesi o italiani, il dato paradossale sta nel fatto che è bastata una modifica dell’ambientazione per rendere più avvincente il film e scuotere finalmente qualche coscienza, sia di governo che di popolo bue.

Dalla rotta mediterranea che seppelliva morti e notizie nel profondo del mare e che era affare dei guardacoste greci, italiani e maltesi e di manciate di popolazione locale, i flussi migratori si sono spostati sulla terraferma, seguendo una rotta balcanica che dalla Grecia e dalla Turchia attraversa molte di quelle nazioni frammentate dal conflitto cui si accennava e ancora acciaccate dalla caduta dell’altro famoso muro della storia. Ecco quindi d’incanto che la questione trova la sua “emersione” definitiva e che il fiato pesante di migliaia di profughi siriani, iracheni, curdi, ecc. si fa sentire nei cieli di Dresda, Praga, Budapest, Vienna e Zagabria, cioè nell’anticamera dell’Occidente ricco.

Il clou della rappresentazione scenica del menefreghismo e della impotenza occidentali (a proposito gli States, veri principali responsabili dei “disastri” mondiali, sono sempre lontano da tutto, 11 settembre a parte) si ha in questi giorni in Ungheria, che pure occidentale lo è parzialmente. In questo Stato il governo di Viktor Orban ha prima innalzato il muro con il confine serbo, a fini di respingimento ed ha poi contestualmente approvato una legge sulle espulsioni immediate e l’uso delle armi per ricacciare indietro l’orda migrante.

In realtà il panorama complessivo è desolante e si assiste ad una battaglia in cui tutti gli stati si tirano fra di loro botte da orbi, pur di preservare la propria sovranità nazionale e i favori della opinione pubblica interna. Per quasi un quinquennio, dalla destituzione di Gheddafi, l’Occidente ha essenzialmente scaricato la questione dell’esodo africano sulle nazioni del Mediterraneo, in primis l’Italia; oggi si viaggia in ordine sparso con gli inglesi che si specchiano nel loro isolamento, i francesi che tentano di essere in prima linea in Siria, come fecero in Libia, per ottenere vantaggi economici, i tedeschi che sviano l’opinione pubblica dalla questione del rigore economico, aprendo e chiudendo i cancelli della solidarietà ed ospitalità, tabelle demografiche e di organici manifatturieri alla mano, i turchi che giocano su due fronti, fra strizzatine d’occhio all’Islam e relazioni economiche con la Ue, gli altri che contano poco o nulla. Questo è oggi il quadro di una Europa assolutamente allo sbando e incapace di gestire la questione dell’immigrazione e divisa su tutto ma in particolare su chi debba farsi maggiormente carico della stessa.

La situazione dell’Ungheria di Orban è dunque né più né meno che un concentrato di tutte le contraddizioni presenti su scala continentale. Il duro di Budapest che è riuscito a ricreare situazioni proprie dell’epoca nazista, fra treni blindati, fili spinati e condizioni di disumanità, in realtà somma anime diverse, tutte però improntate ad una idea gretta di conservazione, dove non vi è alcuna ambizione verso un nuovo ordine mondiale ma così facendo si erge semplicemente a capro espiatorio di tutte i governi occidentali. Se così non fosse, lo si liquiderebbe in fretta, quantomeno nelle sue espressioni più razziste, come si fece con l’austriaco Haider e in qualche misura con i fratelli polacchi Kaczinsky, visto il ranking risibile di tali nazioni e dei suoi governanti e visto che i cordoni della borsa sono saldamente in mano ai colossi occidentali. Ma evidentemente, in assenza di una strategia lungimirante e comune europea, fa gioco anche disporre di questi signori che, dietro ad un nazionalismo di facciata, dal punto di vista economico portano avanti comunque i dettami dell’austerità, dello smantellamento del welfare e della perpetuazione della guerra fra impoveriti nostrani e nullatenenti extra-continentali.

Orban, rieletto a furor di popolo l’anno scorso, è in realtà un leader ondivago e opaco che ha esordito da ultrà delle filosofie liberiste, in salsa anticomunista, per abbracciare negli ultimi anni tesi nazionaliste e fondate sui concetti di Dio e Patria. In tal senso ha attuato politiche ristrettive delle libertà fondamentali e di interferenza nei canali mediatici. Inoltre pur essendo parte della Ue ha neutralizzato il ruolo del Fmi mantenendo il fiorino come valuta interna, in risposta alla crisi economica e per ricontrattare il debito stipulato negli anni passati con l’Occidente ed ha avviato la nazionalizzazione delle banche. Questa presunta virata antieuropea ne ha fatto un simbolo anche per i critici, da destra, del sistema comunitario. Costoro hanno esaltato la ripartenza economica ungherese, accentuandone alcuni tratti, quali ad esempio il contenimento della disoccupazione sotto la soglia del 10% e la crescita del 1,2% del Pil prevista per l’anno corrente.

In realtà il surfista Orban da un lato ammicca alla Russia, con cui ha rinsaldato i rapporti economici e che le garantisce circa i ¾ degli approvvigionamenti petroliferi e di gas. Recentemente inoltre è stato sottoscritto un accordo per investimenti russi nella costruzione di 2 nuovi reattori nucleari.

Dall’altro il suo partito Fidesz rimane saldamente ancorato al Ppe, ossia ai popolari europei della Merkel, di Cameron, di Sarkozy, ecc. e il programma politico pare perpetuare gli interessi della famosa Troika e dell’Europa occidentale, in cambio delle ingenti risorse per ammodernare il paese che continuano a provenire dai fondi europei. Come esempio della continuità con le politiche liberiste si pensi al fatto che a fronte di un aumento dei salari minimi si è avviata una riforma fiscale che ha introdotto una aliquota fissa ed unica di tassazione al 16%, cancellando il concetto di progressività, ed ha incrementato le agevolazioni fiscali verso i grandi gruppi industriali. Di segno liberista anche la riforma del mercato del lavoro che ha reso più facili i licenziamenti e ha contenuto i diritti per donne in gravidanza e madri lavoratrici. Così come l’innalzamento dell’Iva al 27% sulla maggior parte dei prodotti (altri al 18% e pochissimi al 5%) certo non aiuterà le tasche degli ungheresi.

Insomma se a parole si sparano bordate contro i dettami di Maastricht, nei fatti il mix di autoritarismo e furbizie diplomatiche consente ad Orban di alzare la voce senza pestare i piedi a chi comanda a Bruxelles ed oltreoceano. Ed anzi viene quasi da pensare che si stia facendo un piccolo esperimento di laboratorio per capire se si tratta di un modello replicabile altrove.

A questo punto bisogna essere c(i)echi, anzi ungheresi, per non comprendere che Orban è uno specchietto per le allodole e che il suo razzismo e chiusura verso i migranti sono il razzismo e l’inanità di un intero, vecchio e stanco, continente, il quale non sa più azionare nemmeno le sue leve di comando.

 

Dall’Ungheria o giù di lì è anche arrivata la prima aria fredda della stagione post estiva. Queste correnti si sono incrociate con l’aria caldo umida presente nei bacini del Mediterraneo e ad ovest della Sardegna dando vita ad una ciclogenesi foriera di piogge e temporali sulle Baleari e i mari prospicienti. In queste ore tutto si sta spostando fra Sardegna e coste tirreniche e sale la preoccupazione per eventi calamitosi. Questo nucleo di bassa pressione non scorrerà verso est, come di prassi, ma oscillerà su se stesso, come una trottola impazzita e nei primissimi giorni del mese dovrebbe traslare a nord portando l’instabilità su alta Toscana, Liguria e Piemonte; quindi avanzerà a guastare il tempo anche del resto della penisola (eccezion fatta per l’estremo nord-est e per la Puglia) ma poi nuovamente, trovando un muro altopressorio ad est, si muoverà retrogrado per installarsi sulla Francia e rimanere lì bloccato e circondato da alte pressioni. Ciò a causa del rinforzo anticiclonico africano che spingerà correnti calde dalla Tunisia all’Adriatico e garantirà una settimana, a partire da domenica 4, di “ottobrate” coi fiocchi, specie in alcune regioni. Considerando che esso si aggancerà con un anticiclone mitteleuropeo, i cui massimi saranno su Polonia e Ucraina, oltre a temperature sopra media e a giornate soleggiate, si potrebbero avere sulla pianura padana le prime mattinate di nebbia e una certa velatura anche diurna, specie quando si esaurirà l’iniziale spinta delle correnti di scirocco e libeccio. Le sole zone che rimarranno, anche nella settimana nuova di ottobre, in balia della instabilità francese saranno quelle alpine occidentali e forse del nordovest. Insomma all’insegna di una certa variabilità che ha visto il passaggio dal grande caldo ad un cospicuo freddo per poi ritornare al caldo e forse arrivare alla classicità autunnale solo dal 10-15 del mese in poi, quando dovrebbe riaprirsi il canale delle perturbazioni atlantiche.

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