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Scritto da nel Internazionale, Numero 125 - 1 Dicembre 2015 | 0 commenti

Faglia d’instabilità

Faglia d’instabilità

L’attuale situazione di instabilità militare appare come una faglia che attraversa quel confine tra Oriente e Occidente che, fin dai tempi dei classici, distingue e distanzia Roma e la Persia. Le scosse di questa faglia prendono la forma di un terrore sempre più consueto, l’attacco jihadista a Parigi, gli assassini in Bangladesh, i rapimenti nelle zone dell’Africa e gli accoltellamenti in Terra Santa. L’escalation militare dei Governi regolari che, tra di loro, non si muovono certo per superiori ideali ma per i semplici interessi di parte non sembra al momento direzionata verso un allentamento della tensione.

La faglia è generata da una parte da un Occidente a trazione americana che si è girato verso il Pacifico, da un Europa più carro che mulo, e dall’altra dall’asse russo-sciita e qui dentro si è aperto lo spazio per un sommovimento di matrice sunnita ‘leaded from behind’ da Arabia Saudita e Turchia. La via maestra per la chiusura di tale faglia, pare banale ma non scontato, sarebbe un accordo tra americani e russi, che le due potenze sunnite hanno tutto l’interesse a ritardare, come l’incidente del jet russo abbattuto dai turchi sta a testimoniare.

Il ruolo dell’Europa è figlio dell’inconsistenza delle sue classi dirigenti, intrappolate tra insormontabili bizantinismi burocratici da una parte e incalzati da un’opinione pubblica spaventata non sembra ancora dotarsi di leadership politiche in grado di costruirne un ruolo di leadership globale. Il tema dell’opinione pubblica, presente in tutto l’Occidente, sarà decisivo nell’assegnare con la prossima Presidenza americana una prospettiva isolazionista o di nuovo protagonismo a stelle e strisce, che se strategicamente inquadrato in maniera appropriata pare ancora in grado di imporre le soluzioni con la sua forza militare ed economica.

La sfida alla quale la faglia di instabilità ci mette alla prova fin dentro le nostre città in questo secolo nuovo è la capacità di tenuta del nostro sistema di libertà personali e politiche a fronte della necessità di rinforzare la resilienza militare e di rinnovare la governance mondiale e le sue mappe. Il luogo dove meglio di ogni altro si osserva la dimensione di questa sfida è il piccolo Stato di Israele, il cui livello di partecipazione militare dei cittadini si inquadra nella missione di costruzione sionista dettata dalla legittima necessità di sopravvivenza.

Non suona tanto diverso il messaggio pubblico che occorre chiarire alle nostre opinioni pubbliche e intorno alle quali ricostruire un aggregazione sociale, in particolar modo in quella sinistra in cerca d’autore oggi dispersa, irrilevante e in via di estinzione: difendere le nostre libertà di avere comportamenti liberamente impuri, bere alcolici e mangiare il maiale, di fronte a chi le vuole schiacciare sotto i colpi dei kalashnikov, sotto la feroce censura religiosa e oscurantista, non è un pranzo di gala. A meno che non si valuti democraticamente, sorseggiando un tè, che la priorità per la salvezza delle anime e dei corpi stia in un accordo mondiale sul global warming, le domeniche a piedi e gli alcol test.

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