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Scritto da nel Numero 128 - 1 Aprile 2016, Politica | 0 commenti

Libertà e responsabilità del voto

Libertà e responsabilità del voto

L’esercizio del voto è prima un diritto politico o un dovere morale? In una democrazia evoluta potrebbe innanzitutto rappresentare un dovere per ciascuno nell’intesa di un’azione le cui conseguenze interverranno non solo per la persona che si reca ai seggi, ma per tutti. La scelta di non votare può essere – e comunque può essere interpretata come – la testimonianza di una posizione ben precisa, che coinvolge vari livelli di lettura; livelli che tuttavia, nel segno appunto della mancata manifestazione della propria posizione, non si possono prendere in considerazione in un’analisi del voto. Eppure l’astensione al coinvolgimento politico può essere messa in atto anche con l’annullamento della scheda e, è bene ricordarlo, con la rinuncia ad essa che si può far verbalizzare dal presidente del seggio una volta effettuata la registrazione alla consultazione.

Nel decidere di votare o meno, in ogni caso, c’è una differenza fondamentale fra una tornata elettorale e un referendum popolare. L’elezione di un rappresentante, a qualsiasi livello, comporta una scelta che riguarda l’intendimento di ciascuno quanto all’amministrazione locale, al governo del territorio, all’orientamento della legiferazione nazionale e, nel caso del parlamento europeo, continentale; per cui si può serenamente affermare che ogni voto contribuisce un poco alla possibile modifica, o al desiderato mantenimento, dell’ordine mondiale.

L’espressione di un parere su un quesito referendario, invece, è tutt’altra cosa. È influenzare direttamente, senza mediatori, questo o quell’ordinamento; è decidere per sé e per gli altri su un argomento che sarà cardine per decisioni da prendere in seguito nelle sedi delle rappresentanze. O almeno così dovrebbe essere, dato che non sempre accade: esempio di ciò è l’ignobile ribaltamento del volere popolare a cui si è assistito recentemente con il referendum sull’acqua pubblica (ma era già successo aggirando il plebiscitario risultato del 1993 sul finanziamento pubblico dei partiti).

Restiamo dunque alla questione della scelta di recarsi alle urne. Indipendentemente da ciò che si decide di fare nel segreto della cabina, votare al referendum ha una ragione diversa e una in più rispetto a votare alle politiche o alle amministrative. La ragione diversa è l’offerta del proprio punto di vista, senza intermediari e senza possibilità di incomprensioni: il voto al referendum è quello, non è soggetto a riflessioni altre o di altri. La ragione in più è la responsabilità. Votando si offre a tutti i componenti della comunità l’opportunità di esprimersi: essendo indispensabile che la metà più uno degli iscritti alle liste elettorali ritiri la scheda e la deponga nell’urna, andare a votare è tutelare il diritto. E data la scarsa attenzione che i mezzi di comunicazione riservano a questo genere di consultazioni, la valenza sociale del voto risulterà evidente ai più.

C’è una sola tarma che sfilaccia il tessuto di civismo di cui si veste l’istituto referendario: l’incomprensione dei quesiti, che non dipende solo dalla carenza di informazioni offerte ai cittadini. È innegabile infatti che, come nel caso del 17 aprile prossimo, esprimere un parere può far scartare una verità scientifica a favore di una scelta politica; e tale affermazione si legga riferita a entrambe le posizioni. L’impreparazione della stragrande maggioranza dei votanti è dovuta a un’ignoranza della materia incolmabile con una tribuna politica o con un discorso tra amici, per quanto appassionati del tema di turno. Non si affianchi quest’ultima frase all’idea di una posizione snobistica: vale tanto per l’anziano operaio quanto per il brillante laureato in altra materia. La questione esiste, ed è di merito: troppo bisognerebbe studiare per esprimersi con piena convinzione su argomenti su cui non c’è convergenza di pensiero neppure all’interno della cosiddetta comunità scientifica.

Per chi in coscienza non sente di sapere quale ics sia più giusta, allora, il non voto diventa una protesta filosofica che ha un senso. Ma che rischia di favorire una parte, accostandosi pur senza volere a chi spera – per posizione presa – nella sconfitta dei favorevoli al referendum. Una vera aporia, che solo la sensibilità di ciascuno potrà risolvere in un’argomentazione tanto difficile quanto volta a un sincero impiego del proprio civismo.

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