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Scritto da nel Arte e Spettacolo | 0 commenti

“The Woman Who Left” di Lav Diaz

“The Woman Who Left” di Lav Diaz

Lav Diaz, cineasta tra i più carismatici e al tempo stesso austeri del panorama internazionale, maestro della lunga durata, del cinema poetico e visionario, si aggiudica il leone d’oro veneziano con il lungometraggio The woman who left. Quasi quattro ore di film, quattro ore di cinema tanto inafferrabile quanto tecnicamente complesso e ambizioso; ciò che mostra il regista filippino è una continua tensione tra spazio e tempo che si risolve in una successione di microfilm chiusi in lunghissime inquadrature.

The Woman who left è imbastito su una storia ben definita, una vicenda dal sapore antico che ricorda i grandi romanzi ottocenteschi in cui sono verosimili i rimandi al Conte di Montecristo, all’umanità degli eroi di Dostoevskij o alle sfumature dei bassifondi di Zola, e non è un caso che Lav Diaz si sia ispirato al racconto Dio vede la verità ma non la rivela subito di Tolstoj.

Nella narrazione filmica la novella russa si traduce nell’odissea di una donna che si riappropria della libertà venendo scarcerata dopo aver scontato ingiustamante trent’anni di prigione. Per mettere in atto la sua vendetta inizia un lungo viaggio attraverso i bassifondi della città, durante il quale si trasformerà in una specie di madonna dei miserabili. L’Ulisse femminile di Lav Diaz prende le distanze dell’eroe omerico, che sente la necessità di tornare a casa, e si profila piuttosto come quello dantesco che si perde nell’infinito in nome della sete di conoscenza e del desiderio di crescere, di evolvere da una condizione di umanità subita a una di umanità partecipe delle sue potenzialità.

Sin dalle prime scene, girate dentro la prigione in cui è trattenuta Horacia, le inquadrature sono caratterizzate da un’immobilità opprimente. All’interno di queste inquadrature-gabbia le detenute si muovono con una lentezza straordinaria e molto spesso le azioni avvengono dietro ostacoli o reti o sbarre che intralciano la visione diretta tra lo spettatore e l’azione filmica. In questo modo la percezione di oppressione che genera il carcere risulta quantomai percepibile e intensa.

Le inquadrature sono prigioni dei corpi e nonostante Horacia sia stata rilasciata e sia libera la composizione delle immagini denota la medesima condizione di chiusura e limitazione, come se il carcere abitasse in lei.

Dicevamo dell’opera di Tolstoj, Dio vede la verità ma non la rivela subito. Anche qui la ricerca della verità è ciò che spinge la protagonista a trovare un suo posto nel mondo tra il desiderio di vendetta e la pietas che rivolge a tutti disperati che incontra nel suo cammino. L’illuminazione delle scene è pura filosofia della luce; il film attrae lo spettatore in un bianco e nero livido, dai contrasti netti, dove il buio e la luce non sono solo elementi caratterizzanti la fotografia ma diventano categorie dello spirito che si riflettono all’ambiente circostante.

Il lungometraggio cresce e con lo sviluppo della storia si assiste paradossalmente a una percezione nuova, l’interesse per l’andamento della vicenda è sostituito da una totale immersione nella fruizione del film che sembra diventare materia viva: si spande e si deforma nel tempo e si snoda in un incanto visivo mentre la storia si conforma alla lentezza dell’attesa.

Nei duecentoventisei minuti di film la macchina da presa si muove pochissime volte e ciò che accade nelle inquadrature che fungono da contenitore è un montaggio interno che ha del magistrale. È sorprendente il lavoro sulla profondità di campo e sulla composizione della scena, ogni elemento sembra inserito con una precisone scientifica, ma ciò che impressiona maggiormente è la capacità di avvincere e poi respingere lo sguardo dello spettatore.

Il tempo, la vicenda e gli spazi sono tutti assoggettati alla purezza della visione. Lav Diaz si impone come un regista autore nel senso più ampio del termine: ciò che ci mostra è l’interpretazione di una storia attraverso la sua chiave espressiva. Egli intende il film come un’opera d’arte totale, che manifesti in ogni elemento rappresentativo la sua cifra stilistica; per questo interviene in tutte le fasi produttive del film, dalla sceneggiatura alla regia, dalla fotografia al montaggio.

Certo, quattro ore di film a inquadrature fisse possono risultare faticose, ma la chiarezza espositiva e la perfetta costruzione delle immagini non può essere messa in discussione. Lo spettatore rimane in bilico tra noia, difficoltà e contemplazione, fin quando non viene irretito dal finale disperato e vorticoso, che commuove.

 

Trama

Horacia sconta trent’anni di carcere per un omicidio che non ha compiuto. Dopo la confessione della reale colpevole viene rilasciata e inizia un lungo percorso per riappropiarsi di tutti gli anni perduti; appresa la morte del marito e la scomparsa del figlio intraprende un viaggio tra i bassifondi della città, dove vive l’uomo che la fece incarcerare, per mettere in atto al sua vendetta. La società che la circonda è abitata da personaggi capaci di solidarietà, gentilezza e comprensione e Horacia, come distratta da questa umanità, si distoglie dal suo intento; impegnata ad aiutare il prossimo, verrà ripagata con altrettanta generosità.

 

Crediti

Titolo: Ang Babaeng Humayo / Regia: Lav Diaz / Interpreti: Charo Santos-Concio, John Lloyd Cruz / Sceneggiatura: Lav Diaz / Fotografia: Lav Diaz / Montaggio: Lav Diaz / Produzione: Sine Olivia Pilipinas, Creative Programs/ Paese: Filippine / Anno: 2016 / Durata: 226 minuti

Film vincitore del Leone d’Oro alla settantatreesima Mostra del Cinema di Venezia.

 

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