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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 136 - 16 Dicembre 2016 | 0 commenti

Genitori efficaci

Genitori efficaci

Quando un uomo e una donna aspettano un figlio (in particolare se è primogenito), si scatena un tensione emotiva inarrestabile. Ancor prima della nascita scatta la consapevolezza della responsabilità educativa verso i nascituro, cui si accompagna la paura di sbagliare. anche perché i genitori, in genere, pretendono dai figli un comportamento sociale perfetto. Da questa aspirazione  scaturisce il problema complesso della crescita di un figlio.

La motivazione che spinge i genitori ad espletare il compito educativo è l’amore nel duplice significato di “amore proprio” (affermazione e valorizzazione del sé) e  “amore  per il figlio”. l’amore per il figlio è totalizzante e possessivo., volto a proteggere il neonato che è un essere particolarmente esposto e indifeso.

Quando si diventa genitori si assume un ruolo e gli stessi genitori, molto spesso, interpretano questo ruolo in termini antitetici: severità-indulgenza, durezza-tenerezza, autoritarismo-permissivismo.

Questo processo relazionale inizia con la nascita e dura tutta la vita. Infatti nella specie umana il il compito di socializzazione e di adattamento al mondo esterno dura tutta la vita.

Nell’ambito di  questa problematica accennata esaminiamo il tratto di crescita più turbolento e difficile da gestire, cioè l’adolescenza.

Sotto l’aspetto temporale, l’adolescenza è lo stadio intermedio tra  infanzia e età adulta. Ma la fase adolescenziale non è un periodo ben definito perchè l’età adulta che segue è il risultato finale di una graduale maturazione fisica psichica emotiva e sociale.

Nelle società tribali la linea  di demarcazione tra infanzia/adolescenza e età adulta è ben definita  perchè viene sancita da rito di “iniziazione” con cui di avvia un modello di comportamento sociale. Il giovane  “iniziato” , diventando adulto, acquisisce sicurezza sociale che discende  dall’osservanza dei tabù e dai vantaggi spettanti alla categoria degli adulti iniziati.

Al contrario,nelle società evolute, per  l’acquisizione della sicurezza sociale i tempi sono fluidi e indefiniti. Il giovane, durante lo stato adolescenziale  si imbatte in un groviglio di compiti e comportamenti che generano insicurezza e sfociano poi in uno stato di crisi. Questa congiuntura  si complica ulteriormente per il fatto che i genitori non riescono a gestire il senso di vuoto che sperimentano quando il figlio si rifiuta di dipendere da loro. Questa situazione, quasi sempre, sfocia in conflitto  tra genitori e figli. Da una parte i genitori non sopportano l’allontanamento  del figlio, dall’altra  il giovane vuole affermare la propria indipendenza, rifiutando l’autorità protettiva dei genitori.

L’adolescente sperimenta un turbinio di energie disorganizzate che assumono  forme  e manifestazioni  strane e insensate: movimenti impacciati e scoordinati, urli immotivati, atteggiamenti  contrari alle buone maniere etc. Le pulsioni ormonali  rimaste sopite durante l’infanzia esplodono in questa  fase di crescita. Purtroppo al ragazzo manca il copione per recitare la sua parte, non trova le parole per manifestare il suo disagio. I genitori di fronte a questa stranezze reagiscono con divieti e rimproveri. Il figlio non sopporta queste limitazioni e finisce per “odiare” i genitori. Amore e odio rappresentano  i poli che, in modo scriteriato, caratterizzano questo periodo la relazione parentale. Quando “l’odio prevale, l’amore arretra ma non scompare: il figlio ha sempre bisogno dell’amore dei genitori. Si instaura così una situazione che genera ansietà e sensi di colpa. Con una metafore, ripresa dal filosofo Schopenhauer, si può dire che gli adolescente sono come i porcospini: se stanno vicini ai genitori  si pungono, se stanno lontani  hanno freddo. Dall’impasto tra amore e odio nasce col tempo l’armonia, dalla contrapposizione tr questi sentimenti si sprigiona il conflitto.

Il conflitto è una collisione, un disaccordo  che deve allertare i genitori e deve essere compreso  dagli stessi  per scoprire  i bisogni nascosti dei figli. Non sempre i conflitti possono essere evitati, ma quasi sempre si possono prevenire.

In una  situazione  conflittuale asimmetrica, come quella tra genitori e figli, sono i primi che devono sforzarsi di capire la congiuntura dei figli. Quando il genitore coglie un indicatore di disagio de figlio, deve avviare un’azione di prevenzione attivando la competenza dell’ascolto. Spesso bastano pochi minuti di “ascolto attivo” per stemperare il disagio del figlio. Il compito de genitore è, appunto, quello di aiutare senza sostituirsi, aiutare a dare una giusta collocazione ai vari pezzi di un puzzle che appaiono ancora sparsi e non composti nel perimetro della figura che corrisponde metaforicamente alla personalità adulta.

Secondo gli psicologi, nello stadio adolescenziale  dei figli, si possono distinguere tre tipologie di genitori.  Quelli che esigono determinati comportamenti di obbedienza ricorrendo a minacce, esercitando così  la prerogativa di autorità e di potere sul figlio; è il modello “il genitore vince” il figlio perde”. I genitori della seconda categoria evitano di imporre limitazioni perchè ritengono dannoso contrastare le turbolenze del figlio. Qui prevale il modello “il figlio vince il genitore perde”. Questi due modelli sono antitetici. ma c’è  un’alternativa a queste due posizioni, E’ il “modello senza perdenti” proposto da Thomas Gordon (1818-202), psicologo americano, che ha teorizzato il “modello cooperativo” per la soluzione dei conflitti con i figli. Il metodo di Gordon si basa sulla consapevolezza che i figli sono “persone” in crescita con i quali bisogna comunicare  in modo efficace. Per comunicare in modo efficace occorre adottare alcune competenze fondamentali:

a) mettere da parte gli atteggiamenti  legati al concetto di “potere”: controllare, ordinare, punire, esigere, porre limiti;

b) privilegiare un lessico positivo: ascolto, collaborazione, confronto, disponibilità;

c) attivare  la competenza dello “ascolto attivo” che non significa semplicisticamente stare zitti, si fa ascolto attivo con gli occhi, con i gesti, col cuore e dimostrando appartenenza al problema del figlio.

Così facendo si instaura un’atmosfera di empatia tra genitore e figlio: il primo esprime il suo punto di vista  senza attaccare il secondo che viene così indotto a mettersi in discussione e a collaborare. Durante il confronto empatico non devono mancare i cenni del capo, i sorrisi, gli sguardi. Non devono mancare  anche  i messaggi verbali come “ti ascolto”, “sto cercando di capire”. così facendo si aggredisce il problema e non la persona del figlio.

In conclusione, con la comunicazione efficace e l’ascolto attivo, il conflitto si stempera, la relazione si rinsalda, l’armonia ritorna.

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