La percettibile sicurezza
Una società insicura è una società malata. Dato ciò per assodato occorrerebbe l’intervento di un buon medico e di rigeneranti farmaci ma dubito che sia l’uno che gli altri siano oggi facilmente reperibili. Intanto, come da prassi, prima di intervenire sarebbe necessario e utile diagnosticare le cause della malattia. E però, come pure andrebbe fatto per le patologie fisiche o mentali, e nel nostro caso siamo più nell’alveo delle seconde, non guasterebbe un approccio un po’ critico rispetto all’equazione malattia>cura>benessere. Intendo dire che spesso siamo anche un po’ artefici dei nostri malanni o malesseri ed essi scemano o si alimentano anche a seconda del terreno in cui sorgono e si sviluppano, del contesto che li circonda.
La sicurezza intesa come garanzia dell’oggi e certezza del domani è un sentimento da non disprezzare e che permea da sempre l’essere umano, sebbene a volte se ne rifugga o comunque ci si combatta qualche battaglia di posizionamento nell’arco di una vita. Ma tendere parossisticamente ad essa è operazione pericolosa e perniciosa. Si rischia di impostare il proprio tempo in funzione della difesa dello status quo e del precario equilibrio raggiunto. Le società nel corso dei secoli e nelle diverse aree del pianeta hanno espresso sempre una certa cifra di insicurezza, individuale o collettiva. Paradossalmente più il contesto esterno è precario dal punto di vista della incolumità, minore è il senso di insicurezza. Gli uomini delle caverne o chi nasce nelle favelas sudamericane senza dubbio temevano e temono meno di un ingegnere belga contemporaneo la presenza di un orripilante e/o velenoso insetto o rettile. Oggi, anche solo a paragone dei pionieri americani alla conquista del west o dei contadini della mezzadria colonica di inizio ‘900, viviamo dal punto di vista della sicurezza in una sorta di valle dell’Eden, quanto meno noi fortunati nati e cresciuti nei paesi dell’Occidente sviluppato. E’ talmente idilliaca la situazione del contesto in cui viviamo che siamo capaci di spaventarci per una epidemia di influenza, di essere terrorizzati dalle avversità climatiche, di andare nel pallone se dobbiamo avventurarci in una serata nebbiosa su una tortuosa strada di montagna. Figuriamoci se fossimo capaci di imbarcarci in un barcone che prende acqua da tutte le parti, di notte, senza adeguato abbigliamento, dopo aver vissuto gli ultimi mesi in un lager. L’incertezza di rivedere il sole il mattino seguente e una terraferma su cui approdare sarebbe inaffrontabile per la maggior parte di noi che sproloquiamo sulla pacchia delle crociere in mare.
Francamente non è semplice cogliere gli aspetti psicologici più reconditi che portano gli europei dell’est e dell’ovest a osannare in maniera acritica coloro che tendono a governare amplificando il sentimento di insicurezza e che dunque traggono come conseguenza quella di chiudere i propri sudditi nel fortino. O forse è meglio dire che non fa una grinza l’approccio mentale “più immigrati più insicurezza” se questo paradigma viene ripetuto alla noia da vent’anni da tutti coloro che dovrebbero istituzionalmente contribuire a spegnere il fuoco e a gestire le criticità. Amministratori della cosa pubblica di vario ordine e grado che non riescono a tenere le redini di un cambiamento epocale e non sono capaci di spiegarne le dinamiche ai propri governati dovrebbero essere spazzati via dalla storia. Se non una elite europea è capace di ergersi a conduttore e regolatore degli inevitabili processi migratori dal sud a nord del mondo che questo inizio secolo continuerà imperterrito a produrre, con buona pace dei Salvini e degli Orban, non ci si deve meravigliare se poi una fetta decisamente maggioritaria delle popolazioni francesi, italiane o svedesi non sappiano uscire dall’assunto suddetto.
Detto ciò rimane un senso di lieve nausea nel constatare quanto sotto le mentite spoglie dell’insicurezza si celi anche un atavico razzismo verso chi è diverso da noi, ma un tempo ciò valeva egualmente anche se su scala più ridotta e in Italia si manifestava roboante con la diffidenza dei settentrionali nei confronti degli emigrati siciliani, pugliesi, ecc.. E si nasconda pure una massiccia dose di indifferenza e individualismo che sono le altre grandi malattie sviluppate dalle società del benessere.
Fosse solo un problema di insicurezza allora non si capirebbe perché i concittadini europei non vedano che in tutte le proprie sfere relazionali la condizione di insicurezza, rispetto ad una presunta aggressione fisica o rivalità lavorativa o contaminazione degli usi e costumi nostrani da parte di extra comunitari, è ben più rilevante. Valutando l’insicurezza nelle quattro principali sfere della vita di un individuo, ossia quella sociale, quella familiare, quella lavorativa e quella introspettiva, non faremmo fatica ad accorgerci che la percezione che abbiamo come occidentali in questi ambiti non sia affatto paragonabile alla percezione di insicurezza che prorompe nel dibattito politico e sociale attuale, legato al tema dei flussi migratori. Eppure, in particolare come italiani ma non solo, siamo avvezzi da sempre a vivere in contesti sociali permeati dalla criminalità organizzata, in modo persino capillare in alcune aree del paese. In quanto donne, figli ma anche genitori o mariti viviamo spesso situazioni familiari di conflitto e tensione perenne. Come lavoratori siamo entrati da tempo in un tunnel di precarietà e ricatto nei luoghi di lavoro. E infine come individui abbiamo accresciuto a dismisura la paura della malattia e della morte. Dati oggettivi a supporto di tale teoria ce ne sono a bizzeffe: dalla omertà assoluta a fronte della pervasività degli episodi delinquenziali di quartiere alla incapacità di ribellarsi alle angherie subite in ambito familiare, dove più si annidano gli episodi di violenze psichiche, fisiche e sessuali, dalla passività con cui si accettano le condizioni di lavoro alla corsa ossessiva alla farmacologia e alla cura del proprio corpo. Ecco credo a buona ragione che oggi potremmo avere più paura di un clan malavitoso anziché del bullo da bar, più paura a rientrare in casa dai nostri “cari”, più paura di perdere il posto di lavoro o di salire senza protezioni sopra una gru e infine più paura di non vivere abbastanza e in gran forma. Ciononostante la percezione che più ci agita e ci rende insicuri è oggi quella dell’invasione dei neri. Sarebbe bene chiedersi quindi se sia solo un modo per non dare ad altri le opportunità che nel bene o nel male abbiamo noi. Magari facendo diventare più insicuri gli ospiti diventeremmo più sicuri noi ma qui non siamo più nel campo dell’integrazione sociale ma in quello del mondo delle favole.
Di percezione si parla troppo anche in meteorologia e ne abbiamo già discettato in passato. Temperature percepite e temperature reali, leit-motiv delle estati mediterranee. Per fortuna quest’anno sinora ne siamo stati risparmiati in quanto ci ha pensato il clima a evitare sinora le ondate di caldo torrido che fanno vaneggiare circa i 45° percepiti e via dicendo. Cosa è successo a questo incipit di estate? Nulla di particolare se non un mese di giugno all’insegna di una scarsa stabilità atmosferica. I due anticicloni protagonisti, l’azzorriano e il sahariano hanno tentato varie sortite nel cuore dell’Europa ma non sono riusciti a irrobustirsi sul posto cedendo presto il fianco a incursione da ovest ma persino da nord. Di venti caldi africani sinora poco o nulla e la rete è piena di vignette che alludono alla capacità del nuovo governo a guida leghista di essere stato capace di respingere anche i venti dall’Africa. E’ presto per dire che sarà una estate minore. Già successo in passato che giugno sia stato più una propaggine della primavera e che poi da luglio si siano imposti anticicloni che hanno invece dettato un clima torrido sino a fine settembre e senza interruzioni di sorta. Certo forti temporali e grandine non hanno risparmiato l’Italia nelle scorse settimane anche se vorrei rilevare come le configurazioni tipiche del maltempo estivo tendano a eludere le regioni adriatiche o comunque a presentarsi più diffusamente oltre che, per via dell’orografia e di tutto ciò che a livello climatico si connette ad essa, sulle zone alpine e appenniniche, sulle regioni del versante tirrenico, evidentemente più esposte ai venti nordoccidentali.
Vero che dopo una ondata calda sino al 6-7 luglio le previsioni modellistiche paiono riportarci in un vortice di tempesta almeno per qualche giorno con strascichi sulle regioni centro meridionali e stavolta forse proprio con quelle esposte ai venti nord-orientali più penalizzate. Insomma al momento non si intravede un deciso passaggio verso una estate calda e stabile e potrebbe anche avverarsi la profezia di chi battezzò in primavera con un anticipo comunque eccessivo che il mare sarebbe rimasto mosso nel Mare Nostrum.