Chi deve aver paura della Cina
L'esplosione dell'economia cinese che ormai è sotto gli occhi di tutti non è un fatto recente: già nel 1978 il governo cinese dava inizio a quei cambiamenti radicali che hanno stravolto l'economia dagli occhi a mandorla.
In quegli anni la Cina iniziava ad aprirsi all'occidente abbandonando l'economia pianificata, spalancando le porte agli investimenti delle imprese – multinazionali – dei paesi sviluppati. Scelte che hanno portato il paese ad diventare la quarta potenza economica nel 2005 (dietro Stati Uniti Giappone e Germania), con una crescita che da tempo supera il 9% annuo.
Tutto ciò può impressionare ma non deve sbalordirci se pensiamo che nella regione vive circa il 20% della popolazione mondiale che genera solamente poco più del 5% del PIL mondiale. Per contro, gli Stati Uniti con il 5% della popolazione mondiale producono il 28% della ricchezza globale. E' legittimo, quindi, attendersi uno spostamento del baricentro economico ad “est”, aspettativa che si rafforza se si considera il potenziale dell'India.
La Cina fa paura ma solo se ci facciamo spaventare. Aver timore porta a chiudersi a riccio, difendersi invece che attaccare, condannare invece che giovarsi di determinati comportamenti.
Accusare la Cina di sfruttamento della manodopera sarebbe ipocrita in quanto significherebbe chiudere gli occhi davanti alla storia. Il miracolo italiano ci ha fatto vedere come i vantaggi derivanti dal basso costo del lavoro rappresentano un passaggio fisiologico da un'economia in fase di sviluppo ad un'economia sviluppata.
In aggiunta, le richieste di maggiore protezione dai prodotti cinesi dell'Italia o dell'Europa nella sua unità, non aiuteranno a restituire competitività alle nostre imprese sui mercati internazionali (tessile e agricoltura per primi). La questione infatti non è limitare l'accesso dei prodotti “made in China” in quanto, pur riuscendo in questo intento, l'Europa non potrebbe impedire alla Cina di espandere le proprie quote di mercato in paesi terzi che comunque commerciano con l'Europa. Il risultato sarebbe un inasprimento dei rapporti con la Cina e la possibilità per le industrie europee di continuare a produrre in un ambiente pseudo-competitivo a tutto discapito dei consumatori.
Il timore favorisce un comportamento irrazionale che tende ad enfatizzare i lati negativi (che comunque esistono) dell'ascesa economia cinese e trascura le opportunità che tale cambiamento offre. A farci riflettere su questo aspetto ha pensato un imprenditore del pavese con un'impresa che sa più che mai di “italiano”. A capo della Riso Gallo, società italiana leader nella produzione e commercializzazione del riso, Mario Preve è riuscito li dove nessuno prima aveva osato: vendere riso in Cina. Impensabile pochi mesi fa, una certezza oggi, il mercato cinese ha conosciuto ed apprezzato la variante del riso bianco: i risotti pronti. Impresa che fa riflettere. Fa riflettere su come la globalizzazione non è un gioco a somma zero e di come i vantaggi esistono e sono diversi, l'importante è sfruttarli.
La Cina non è infatti solamente una meta per l'outsourcing della produzione di beni di largo consumo ma è, e lo sarà sempre più, uno dei mercati più appetibili per le merci italiane. Negli ultimi vent'anni si è favorita una significativa riduzione della percentuale di popolazione cinese che vive in povertà (dal 53 per cento nel 1981 all'8 per cento nel 2001). Con 100 milioni di consumatori di classe media, con un reddito medio cioè paragonabile a quello europeo, la Cina rappresenta lo sbocco ideale per i prodotti ad alto valore aggiunto di cui l'Italia rimane “inconsapevolmente” una degna produttrice.
La Cina cresce ed anche molto rapidamente, ma in quale direzione? Il sistema adottato dalla Cina porta con sé le contraddizioni derivanti da un mix di cultura comunista con regole di mercato aperto. All'eccessiva burocraticità della pianificazione economica comunista si aggiunge la scarsa attitudine redistributiva di un regime capitalista.
Tra i maggiori problemi che la Cina si troverà costretta ad affrontare rientra il divario sempre più ampio tra ricchi e poveri. La più ricca delle province cinesi gode di un reddito pro-capite tredici volte superiore a quello della provincia più povera. Fino ad oggi gli interessi della popolazione si sono focalizzati sull'esigenza di migliorare il tenore di vita mentre il governo ha avuto come obiettivo quello di creare le migliori condizioni di attrattività dei capitali esteri. In questi termini nulla esclude che una volta raggiunto un adeguato grado di sviluppo, gli abitanti delle regioni più povere pongano in essere rivendicazioni salariali mentre invece le regioni più ricche spingano per ottenere una maggiore autonomia dal governo centrale.
Anche gli investimenti diretti delle multinazionali rappresentano una questione spinosa da affrontare. La crescita cinese è stata largamente finanziata da capitali provenienti dall'estero e fortemente sorretta dalle esportazioni di beni di largo consumo. Un sistema economico basato sul commercio estero e sulla iniziativa privata non crea le condizioni per reagire ad una possibile restrizione degli scambi a livello internazionale né tanto meno pone le basi per una solida crescita. La necessità di stimolare la domanda interna si fa quindi sempre più pressante, specialmente per un paese in via di sviluppo come la Cina, costretto a maturare in un contesto economico internazionale soggetto a ricorrenti crisi politiche ed economiche.
La questione dell'inquinamento rincara la dose di preoccupazione del governo cinese e non solo, per uno sviluppo stabile e sicuro. Il crescente consumo energetico senza adeguati controlli sta già producendo i primi risultati negativi in termini di inquinamento e invivibilità delle zone industrializzate. Da una parte, sotto la pressione dei paesi industrializzati, la Cina sta già investendo in tecnologie a scarso impatto ambientale, ma dall'altra ricorre sempre più al consumo di carbone, estremamente inquinante, lì dove i bisogni energetici non sono soddisfatti dalle forniture di petrolio.
I problemi ambientali, come le questioni di politica interna, avranno un ruolo cruciale per la realizzazione di uno sviluppo sostenibile e non possono essere subordinate all'obiettivo della mera crescita economica. I vantaggi attuali potrebbero diventare le cause dell'insuccesso futuro se la Cina non correrà ai ripari prima che sia troppo tardi.
In definitiva, chi deve aver paura della Cina?