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Scritto da nel Economia e Politica, Numero 12 - 1 Marzo 2007 | 0 commenti

La stella a quattro punte…

Il 16 di febbraio, dalla comoda amaca ospitata tra le pagine del quotidiano Repubblica, Sebastiano Messina osservava col suo stile graffiante come un'ideologia che odora di stantio, potesse ancora generare figli mentalmente ritardati. Una delle peculiarità della nostra amata penisola, sembra essere l'aria viziata di cui non ci si riesce a liberare: l'odore di vecchie chincaglie ideologiche ha ormai permeato gli ambienti a tal punto, che per disfarsene occorrerebbe una nuova tinteggiatura.

Fuor di metafora, è disarmante prendere atto di come la modernità e le sfide che l'accompagnano, non abbiano minimamente sfiorato i progetti e gli ideali dei giovani e scapestrati brigatisti, fuoriusciti dalle fabbriche piemontesi, lombarde e del triveneto.

Le cronache parlano di una cellula armata e potenzialmente pericolosa, di quindici arresti e settanta indagati, e dulcis in fundo, del rientro in Italia di Alfredo Davanzo, brigatista della vecchia guardia latitante dagli anni ottanta. In questa vicenda dai contorni farseschi – l'eminenza grigia non ha tardato a dichiararsi prigioniero politico- non si può tuttavia prescindere dall'elemento fisiologicamente drammatico che la determina: gli obbiettivi sensibili accuratamente scelti dai brigatisti, erano uomini reali con nomi e cognomi, e nel caso del giuslavorista Pietro Ichino, dotati di una spiccata intelligenza improntata ad un sano riformismo meritocratico.

L'amara morale che si può trarre sfogliando i quotidiani, è che all'alba del terzo millennio: mentre le banlieu parigine vanno a fuoco e l'immigrazione di massa ha assunto dimensioni difficilmente arginabili, mentre il clima impazzisce e la globalizzazione ha indirettamente gettato il suo guanto di sfida, e mentre gli assetti mondiali sono ridisegnati dall'unica superpotenza rimasta tale dopo il crollo del muro di Berlino, esistono ancora uomini che si arrogano il diritto di giocare alla rivoluzione con la vita degli altri, armati di un'ideologia vecchia di due secoli.

La negazione dello stato di diritto da parte dei gruppi armati si alimenta, e può di fatto esistere, soltanto grazie all'irreciprocità di tale concezione dogmatica. Infatti, la presunta scomparsa del diritto implicherebbe in modo inevitabile l'equivalenza e la sovrapposizione a questo del concetto di forza: lo stato diverrebbe di fatto legibus solutus e il monopolio legale della violenza potrebbe essere esercitato in modo indiscriminato ed in qualsiasi ambito. Fortunatamente, nota Pietro Ichino, autore tra l'altro di una lettera aperta ai brigatisti, che il diritto non è proprio agonizzante: Le disposizioni [...] erano che, quando veniva arrestato un terrorista, non lo si maltrattasse, non lo si insultasse: doveva essere trattato con grande rispetto, da cittadino. Questo ha disorientato molti brigatisti: si aspettavano, dopo l'arresto, di essere trattati come belve da altre belve; e invece scoprivano di essere trattati come persone umane da altre persone umane: così incominciavano a scoprire i benefici di una “cornice” di rispetto reciproco tra persone, di quello Stato di diritto che fino al giorno prima volevano abbattere[1].

Se abbondano gli elementi per inserire l'ennesima carnevalata nell'omnicomprensivo contenitore della tragicommedia all'italiana, resta tuttavia ben disegnata ed impressa nella memoria collettiva, la linea di sangue ininterrotta che collega Aldo Moro a Marco Biagi: entrambi vittime della stessa matrice politica e dello stesso manicheismo dottrinale.


[1] Corriere della Sera, Primo piano 3 Marzo 2003.

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