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Scritto da nel La Cantina del Viaggiatore, Numero 16 - 1 Maggio 2007 | 0 commenti

L'uva con cognome, nome e soprannome

C’è chi ha dato il proprio nome ad un’invenzione, chi ad un animale scoperto. Chi ad un monte, chi ad una malattia. In tanti ad una via.

Ma c’è chi ha anche dato il proprio nome ad un’uva, anzi: cognome, nome e soprannome.

Un‘uva particolarmente buona, decisamente più buona delle uve della zona tanto da suscitare invidie, prima, e sempre più decisi consensi, poi.

Quest’onere e onore è toccato ad Antonio Longanesi, meglio conosciuto come Burson, soprannome di famiglia.

Contadino appassionato di caccia, durante la pratica della disciplina olimpica a lui più congeniale, la caccia dalla capanna, si accorse di questa vite selvatica intrecciata intorno al “roccolo” (quercia). Vite che doveva dar dei frutti particolarmente dolci, vista l’attenzione che gli dedicavano gli uccelli della zona.

All’inizio degli anni ’50, quando la famiglia Longanesi decise di riprendere a coltivar la vite, la scelta di quale uva usare fu scontata. L’uva effettivamente raggiungeva concentrazioni zuccherine, di tannini, polifenoli e resveratrolo impensabili per le altre uve della zona.

Paesino piccolo, piccolo prodigio, grande invidia. Longanesi senza fare una piega regalò la sua uva a chiunque glielo chiedesse, tanto che nel giro di breve tempo ogni contadino nei pressi di Bagnacavallo aveva filari di uva d’Burson.

Un’uva sconosciuta, di cui si ignorava l’origine e che spesso venne erroneamente paragonata ad altre uve della zona, come il sangiovese o il negretto, anche per permetterne la commercializzazione.

Infatti l’uva non era ufficialmente riconosciuta, tanto che alcuni ricercatori di Agraria dell’Università di Bologna gli dissero che non poteva diffondere quelle piante. Burson da buon romagnolo rispose :”Io a casa mia la do a chi mi pare, la mia roba”.[1]

È però negli ultimi anni che l’uva Burson esce dal guscio, inizia ad essere vinificato in purezza.

Nel 2000 venne ufficialmente iscritta al Catalogo nazionale della delle varietà di vite. Sulla scelta del nome nessuno ebbe dei dubbi, rendendo quindi omaggio al suo scopritore.

Un anno prima venne fondato il “Consorzio il Bagnacavallo”, il quale sotto la spinta dell’enologo Sergio Ragazzini e Roberto Ercolani porta alla nascita di due tipologie di vini: Burson etichetta blu e Burson etichetta nera.

La prima tipologia non deve sostare meno di sei mesi in barrique, mentre l’etichetta nera deve “fronteggiare” almeno venti mesi di legno.

Caratteristica dell’etichetta nera è l’appassimento dell’uve, processo che la porta ad essere una sorta di Amarone di pianura.

Al momento il Burson etichetta nera è un vino a mio modesto parere fantastico, sicuramente particolare e affascinante.

Non altrettanto i può dire dell’etichetta blu, vino “lunatico” che non ha ancora una sua precisa personalità e che a volte lascia un po’ interdetti.

Vi ricordo che il vino è “ufficialmente” nato da poco, quindi entrambe le versioni hanno ancora ampi margini di miglioramento.

I prezzi sono mediamente abbordabili, ma se volete un consiglio spendete qualcosa (pochi euri) in più e prendete ad occhi chiusi un etichetta nera.

Meglio un bicchiere in meno ma buono![2]



[1] Slow Food Aprile, Fabio Giavedoni.

[2] Se incontrate l’oste di sera in tal pradel c’è il rischio di trovare incongruenze tra quest’ultima affermazione e il suo stato…

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