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Scritto da nel La Cantina del Viaggiatore, Numero 24 - 16 Settembre 2007 | 0 commenti

“An vedi che mona”

“An vedi quante cantine aò!!!!!!”, Tullio Marius Plebaglius, centurione della X falange armata del XIX battaglione (rigorosamente tutto in numeri romani) si lasciò scappare questa frase nel lontano 10 settembre 148 a.C.

Le cronache dell'epoca narrano che lo sentì il comandante del valoroso XIX battaglione, Emilius Bitorrius che sentito il centurione gli ordinò “Imbarieg, va ban a vaddar se al ven l'è bon!” (era da poco stata fondata Bononia).

E il vino in questione doveva essere buono, se la valle che stavano attraversando è arrivata a noi con il nome di valpolicella.

Ovviamente l'aneddoto che vi ho sopra descritto è di pura immaginazione, ma un particolare è vero: l'origine del nome valpolicella.

Scomponendolo e facendosi venire un salutare mal di testa nel tentativo di far a venire a galla reminiscenze latine, si può osservare che la singola parola si scompone nelle parole: Vallis Polis Cellae.

Ergo: valle delle molte cantine.

È quindi da molti anni, secoli per la precisione, che la valpolicella è una regione a forte vocazione vitivinicola.

Cultura che ha resistito lungo i due millenni, incontrando ovviamente le difficoltà del caso, specifiche alla zona (andamento climatico) o generalizzate alle sorti della viticoltura in senso lato, vedi filossera (numero precedente) o peronospora e flavescenza (forse nei prossimi numeri?).

Al giorno d'oggi questa terra ci fornisce prodotti di eccellenza, purtroppo anche elitari visto i prezzi che generalmente li contraddistinguono: Amarone, Recioto e Ripasso. Non parlo del Valpolicella che a parte poche eccezioni è un “vinazzo”.

Curiosa anche l'origine dell'Amarone, anche se qui sono convinto che sia una delle prime riuscite operazioni di marketing.

Il vino principe della zona era l'Acinatico, vino dolce progenitore anche del Recioto. Caratteristica di questo vino era l'appassimento dell'uve in cassette, pratica volta all'aumento della concentrazione zuccherina al fine di ottenere un vino dolce leggermente liquoroso.

Leggenda narra che un anno il vino ottenuto da queste chicchi d'uva fatti appassire, fu dimenticato e lasciato fermentare un po' più del dovuto (“Moooona, ga ti se dimenticato il vino!!!), particolare che ha portato alla creazione di un vino dall'alta componente alcolica, ma da un gusto decisamente più secco rispetto all'Aciatico. “Amaroneeeeee”, fu ribattezzato dal focoso padre che grazie agli effluvi benefici di questo ottimo vino smise di bastonare il mona, ehm, il figlio distratto.

Nemmeno a dirlo, si sono formate due diverse correnti di pensiero, stavolta però all'interno della mia testa: la prima che sostiene la veridicità dell'aneddoto, sostenendo che molte delle migliori invenzione umane sono nate per puro caso; l'altra che osserva che i veneti sono gente precisa nonché grandi lavoratori, e che in tempi di miseria e di fame non si scherzava troppo col cibo (perchè alla epoca di cibo si trattava).

Già all'epoca si notò che questo vino dal sapore più amaro rispetto al precedente poteva vantare tra le sue peculiarità una maggiore resistenza al tempo, caratteristica molto importante in tempi dove conservanti e solfiti non si erano ancora affacciati.

Quindi, secondo la mia modesta opinione, fu semplicemente un'intuizione azzeccata la creazione di un vino che per le sue caratteristiche non va annoverato ne come rosso, ne come vino dolce ne come nessun'altra tipologia di vino, essendo unico, ma che sicuramente, con la sua bontà, mette d'accordo le due “diverse fazioni”.

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