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Scritto da nel Internazionale, Numero 24 - 16 Settembre 2007 | 0 commenti

Il genocidio degli Inuit

Secondo il World Database of Happiness[1] il Paese “più felice” al mondo è la Danimarca… ma non proprio tutti i Danesi sono felici.

Camminando a Copenhagen per le strade di Christiania, utopico quartiere hippy in decadenza, in un'atmosfera da medioevo post-nucleare, è facile incontrare nutriti gruppi di Inuit groenlandesi persi nei fumi dell'alcol. Cosa porta gli Eschimesi in Europa?

I Groenlandesi sono cittadini danesi sudditi di Sua Maestà Margherita II, ma non con un'esistenza felice come quella dei connazionali europei. Le condizioni di vita degli Inuit risultano essere drammatiche a Copenaghen ma lo sono ancor più nella loro terra d'origine: la Groenlandia; vittime della globalizzazione e della Madre Danimarca, paradossalmente schiacciati da una parte dall'inquinamento e cambiamenti climatici e dall'altra dagli ambientalisti.

Sono infinite le piaghe cui deve fare fronte questo popolo che rischia in tutti i sensi l'estinzione. Quasi 60 mila persone, discendenti di cacciatori di balene e di foche, privati della propria identità, della propria cultura e della propria lingua.

-La guerra degli ambientalisti-

Un territorio minacciato dagli effetti dei cambiamenti climatici, vede paradossalmente come più acerrimi nemici degli Inuit le organizzazioni di ambientalisti. WWF e Greenpeace si sono infatti scagliate contro le “primitive” usanze che vedono nella caccia alle balene e alle foche la base dell'economia inuit, portando ad una drastica riduzione dell'attività; il risultato è stato di rendere impossibile l'autonomia e la sopravvivenza, sia fisica che culturale, del Popolo del Nord. Un cacciatore che riusciva a sfamare col proprio lavoro una numerosissima famiglia, riceve oggi dal Governo di Copenhagen 300 euro al mese… Le conseguenze sono state drammatiche: negli ultimi anni si sono registrati infiniti casi di suicidio, per fame e per onore, e di alcolismo soprattutto presso la popolazione adulta maschile (ma l'alcolismo tra minori è sempre più frequente).

-Lo stile di vita occidentale-

Ad infierire ulteriormente sono le nuove cattive abitudine sempre più diffuse tra gli Inuit negli ultimi decenni. In particolare l'abuso di alcool e di fumo[2], assieme ad uno stato di inerzia psicofisico e depressione per mancanza di luce nei mesi invernali, ha portato i groenlandesi ad una narcotizzazione constante, una consapevole autodistruzione, anticamera dell'estinzione.

La Groenlandia vive oggi di turismo, unico settore con potenzialità di crescita nel breve periodo, della pesca che rappresenta il 94% dell'export e dei finanziamenti pubblici stanziati dalla Danimarca. I giovani decidono per il suicidio o l'emigrazione.

La sopravvivenza degli Inuit di Groenlandia è ora nelle mani del senso di responsabilità della Danimarca, della comunità internazionale (?!) e dell'ICC (Inuit Circumpolar Council), un'organizzazione non governativa che rappresenta tutti gli Inuit di Groenlandia, Canada, Russia e Alaska.

Per le strade di Christiania si aggirano tutte le sere gli Inuit, uomini e donne, avvelenati dall'alcol e dalla droga, probabilmente trentenni ma che dimostrano il doppio dell'età: volti segnati da risa alcoliche e occhi vuoti. La loro storia è drammaticamente simile a quella degli Indiani d'America e degli Aborigeni australiani, vittime dell'Occidente.

Con sconcerto si scopre che la povertà non esiste solo nel Sud del Mondo ma anche nel suo più estremo Nord.

Per saperne di più si consiglia:

- “Il Lungo addio del Popolo Inuit”, La Domenica di Repubblica, 7 gennaio 2007:
http://download.repubblica.it

- “Greenland”, CIA – The World Factbook:
https://www.cia.gov/

- “Nero Artico”, documentario di Massimo Mapelli per Speciale Tg La7

- Inuit Circumpolar Council: http://www.inuit.org/

- Sito ufficiale di Christiania:


[1] http://worlddatabaseofhappiness.eur.nl

[2] P. Bjerregaard, M. E. Jørgensen, P. Lumholt, L. Mosgaard, K. Borch-Johnsen, “Higher blood pressure among Inuit migrants in Denmark than among the Inuit in Greenland”, Journal of Epidemiology and Community Health 2002; 56:279-284 – http://jech.bmj.com/

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