Brunellopolis
Oppalà. Stavolta viene accusato un principe.
Il principe dei vini italiani: sua santità il Brunello di Montalcino.
L'accusa: non essere vinificato con sangiovese grosso, localmente detto Brunello, al 100%.
Gli indagati eccellenti: Brunello di Castelgiocondo (di proprietà di Marchesi de’ Frescobaldi), Pian delle Vigne (di proprietà di Marchesi Antinori), Castello Banfi e infine Argiano a cui forse se ne aggiungeranno delle altre. Aziende tra le più importanti a Montalcino, Antinori e Frescolbaldi anche ai vertici dell'enologia nazionale.
Inizialmente le accuse di taglio seguivano due strade: la prima, subito smentita dalla Procura di Siena, è quella che vedeva il Brunello tagliato con vino proveniente dalla Puglia (ancora tu?), la seconda, quella tutt'ora in fase di accertamento, quella che vede il vitigno più diffuso in Italia aggiustato con vitigni provenienti si da Montalcino ma non ammessi dal disciplinare.
A dirla tutta il disciplinare prevede un possibile taglio: 15% di millesimi di altre annate, ma sempre e solo rigorosamente di sangiovese grosso.
Ma da indiscrezioni sembra che l'annata 2003 sia stata prodotta con, seppur piccoli, tagli dei cosidetti vitigni internazionali: merlot, shiraz e cabernet sauvignon. Ricordandosi quanto sopra scritto (taglio con millesimi di altre annate) ciò significa che le ripercussioni potranno ricadere anche sulle prossime annate.
Sorpresa? Da più parti è stata definita la scoperta dell'acqua calda, o se vogliamo, in questo caso del vin brulè.
Per due semplici ragioni: la prima riguarda gli states e le mode del vino, la seconda leggi e disciplinari di Montalcino degli ultimi dieci anni.
Robert Parker è un giornalista statunitense che nel bene e nel male decide le fortune di produttori e vini. Notoriamente è amante di vini a taglio bordolese in cui l'impronta del legno sia molto ben evidente.
Se le sue scelte possono lasciar indifferente (n.d.r. ma non lo lasciano) il pubblico del vecchio continente, sono a tutti gli effetti la base di partenza per poter vendere nel mercato a stelle e strisce. Considerato che più di un quarto delle vendite del nettare (non scherziamo, sempre di nettare si tratta) di Montalcino finisce nel mercato statunitense e i riconoscimenti che ogni anno piovono dalla rivista "The Wine Advocate" ai vari Brunello il dubbio era sorto da tempo.
1996: data in cui viene riconosciuta la Doc Sant'Antimo.
Il disciplinare di questa giovane Doc recita: "I vini che ottengono la denominazione Sant'Antimo DOC si distinguono solo in Rosso o Bianco e sono prodotti esclusivamente con uve la cui coltivazione è autorizzata nella provincia di Siena, oppure portano il nome di uno dei seguenti vitigni, che in questo caso deve essere presente almeno all'85%, e devono essere prodotti in quantità limitata: Chardonnay, Sauvignon Blanc, Pinot Grigio, Pinot Nero, Cabernet Sauvignon e Merlot. La zona di produzione del Sant'Antimo si trova nel territorio di Montalcino".
Prima dell'avvento di questa Doc i vini coperti dal disciplinare erano il Brunello (DOCG), il Rosso di Montalcino Doc (anch'esso vinificato interamente con uve di sangiovese grosso) e il Moscadello.
In parole povere, dal 1996 merlot, cabernet sauvignon e gli altri vitigni internazionali sopra elencati possono essere coltivati nell'area di Montalcino con il riconoscimento della DOC.
Ma che bisogno c'era, considerato che i supertuscan (ovvero vini toscani prodotti con blend di vitigni internazionali e/o sangiovese) imperversano sui mercati di tutto il mondo?
È notizia dell'altro ieri quella della riunione dei produttori di Montalcino, nella quale hanno i deciso di marciare uniti e compatti, ma c’è chi come Gianfranco Soldera chiede la sospensione degli indagati.
Inoltre sta emergendo una spaccatura tra due schieramenti contrapposti: da un lato i modernisti, dall'altro i tradizionalisti, che rappresentano due diverse visioni enologiche. Al centro del dibattito il disciplinare, con i primi che chiedono modifiche in nome del liberismo enologico e i secondi che sostengono il valore della tradizione, forti del motto “squadra che vince non si cambia”.
A favore del liberismo si è schierato anche il noto giornalista Luca Maroni, il quale ribadisce che l'importante è che "…il vino è iscritto all’albo, per esempio, del Brunello, e questo basta a certificare l’autenticità della provenienza delle uve. Poi, come il produttore sviluppa in cantina tecnicamente il suo vino – conclude il critico – è frutto della sua competenza, della sua conoscenza, e soprattutto del gusto dei consumatori che sono i veri “datori di lavoro” di noi tutti”.
Come avete capito, non si tratta di sofisticazioni che intaccano la salubrità o la qualità del prodotto, trattandosi comunque di eccellenze, ma di rispetto di regole e di trasparenza nei confronti del consumatore.
Certamente il fatto che determinati produttori chiedano il liberismo enologico non sgombra il campo da dubbi.
Dalla mia posso sottolineare che un bagno di umiltà da parte di molti produttori montalcinesi non farebbe male. Per una volta prendere come esempio i “cugini poveri” romagnoli o i fratellastri del Chianti non sarebbe una cattiva idea: sia in molti dei disciplinari riguardanti il Sangiovese di Romagna (non tutti) che nel Chianti Classico il disciplinare prevede una base minima di Sangiovese dell’85% e la possibilità (non l’obbligo) di tagli di vitigni autorizzati, sia internazionali che autoctoni.
Non tutti sono in gradi di creare dei Flaccianello (Fontodi), Cepparello (Isole e Olena) o Sodi di san Niccolò (Castellare), capolavori di sangiovese in purezza che per scelta dei produttori non rientrano in nessun disciplinare.