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Scritto da nel Internazionale, Numero 37 - 16 Aprile 2008 | 0 commenti

La Cina e i suoi tanti Tibet

Il 2008 è l'anno della Cina: campione nell'economia mondiale, con l'organizzazione dei Giochi olimpici il paese gode di una grande visibilità come mai prima d'ora, e i gravi disordini di Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet, delle ultime settimane, non potevano non passare inosservati. Il mondo indignato si è scagliato contro il feroce regime e contro il più sacro dei simboli olimpici: la fiamma.

Ma perché tanta violenza nei confronti dei Tibetani? Cos'ha di speciale questo territorio montuoso e disabitato?

La risposta sta nella natura della Cina; vediamo di fare chiarezza.

9,5 milioni di km2, 14 paesi confinanti, 1 miliardo e 321 milioni di abitanti (2007)[1]:

la Repubblica Popolare Cinese è un paese fortemente eterogeneo, costituito da 5 regioni autonome (zizhiqu), 23 province (sheng) e 4 municipalità (shi), ma soprattutto 56 gruppi etnici riconosciuti con altrettante e più lingue! Il 92% della popolazione è di etnia Han (anche se è inesatto definirla tale), per il resto: 18 milioni di Zhuang, animisti che occupano il Guangxi Zhuang (Sud della Cina); 9 milioni di Miao nel Guizhou (Sud della Cina), per 1/3 protestanti; 7,7 milioni di Yi, animisti delle regioni montuose e del Guangxi; 7,2 milioni di Uiguri, musulmani e turcofoni nella regione dello Xinjiang; 6,5 milioni di Tibetani; 2,5 milioni di Buyi nel Sud; altre minoranze tra cui Manciù, Mongoli e Coreani. Tutto ciò nella speranza di intuire la complessità della gestione di un simile territorio.

Le opzioni non sono/erano tante. Il giovane Mao Zedong era un fautore della Grande Cina federata, con ampie autonomie garantite alle diversissime etnie; bastarono pochi anni perché si svelasse il vero volto del Grande Timoniere, modificando in modo tanto inspiegabile quanto radicale le proprie posizioni: annessioni armate, aggressioni interne ed esterne, genocidi, costituendo un paese che fa del centralismo autoritario, solo ultimamente mitigato grazie allo sviluppo economico, la sua essenza[2].

Le repressioni nei confronti di etnie e regioni che spingono per una maggiore o totale indipendenza sono all'ordine del giorno, ma indubbiamente sono due i veri simboli: il Tibet e lo Xinjiang o Turkestan orientale, spine nel fianco per l'amministrazione cinese. Le più alte autorità di Pechino, col Presidente Jintao in testa, hanno sottolineato che la questione tibetana e uigura sono un problema di sovranità e che gli interventi dell'esercito sono a tutela dell'integrità territoriale della Repubblica. Il Dalai Lama, capo spirituale del Governo tibetano in esilio, ha ormai abbandonato mire indipendentistiche, anche su pressione della comunità internazionale, chiedendo una maggiore autonomia e più dignità e tutele per il suo popolo; tuttavia la regione autonoma non è esclusivamente popolata da pacifici monaci buddisti, si registrano infatti varie anime con posizioni anche più radicali.

La situazione nello Xinjiang, sostanzialmente ignorata dai media italiani, è altrettanto grave: continue repressioni nei confronti della popolazione uigura a maggioranza musulmana, che mira all'indipendenza del Turkestan orientale. E' cronaca degli ultimi giorni, l'intervento dell'intelligence cinese che ha sventato la preparazioni di attentati terroristici in sedi olimpiche da parte dell'Etim, organizzazione separatista islamica. L'Etim è incluso nella lista delle organizzazioni terroriste da Cina, Stati Uniti e ONU, con documentati legami con il defunto regime dei Talebani in Afghanistan, integralisti islamici del Pakistan e Al Qaeda.

I motivi che spingono

la Cina ad intervenire in modo così duro in Tibet e Xinjiang sono ovviamente economici, di sicurezza nazionale ed integrità dello stato. Il Tibet è da secoli ritenuto zona cuscinetto a protezione dell' impero cinese, a prescindere da chi governasse: da Gengis Khan alla dinastia Ming, dai Qing Manciù a Mao passando per Sun Yatsen. Inoltre il clero tibetano è sempre stato considerato dalla Cina di grande rilevanza strategica per la gestione dell'amministrazione dello stato, in cambio di una riconosciuta supremazia politica cinese da parte dei monaci.

Lo Xinjiang è invece soprannominato il Far West cinese, regione non molto popolata, terra di conquista per i Cinesi Han, ricca di petrolio, gas e fondamentali risorse naturali per la nuova rampante Cina.

Il problema non è legato alla questione nazionale tibetana o uigura, “ma è il modo brutale e retrogrado in cui il Partito Comunista Cinese gestisce il potere e tratta tutti gli abitanti del suo Paese, non solo Tibetani (e Uiguri)”[3].

Non sono da condannare a priori interventi da parte della Cina tesi alla tutela dell'integrità territoriale, nella speranza di eliminare forze centrifughe che spingono per l'indipendenza di alcune regioni, con la minaccia di potenziali effetti simili alla questione kosovara in scala però ben maggiore. Sono da condannare i modi: l'assenza delle fondamentali tutele dei diritti umani (in tutta

la Cina ), i feroci interventi delle autorità. Ma soprattutto la migrazione coatta da parte degli Han (i “veri” Cinesi), che invadono zone popolate dalle minoranze dando vita ad uno strisciante e silenzioso genocidio: in Tibet 7,5 milioni di Han superano i 6,5 Tibetani, nello Xinjiang il 41% di Han (in crescita) controbilancia il 45% di Uiguri sul totale della popolazione regionale.




[1] CIA – The World Factbook

[2] Si consiglia: F. Rampini, “L'ombra di Mao”, 2006, Mondadori

[3]Tibet e Cina, destini incrociati – intervista a Stefano Cammelli”, PeaceReporter.net

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