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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 67 - 1 Marzo 2010 | 2 commenti

Cattività o redenzione?

Che sia vero o meno che questa tendenza sia insita nella loro natura, gli uomini, sin dalla notte dei tempi, come diceva Aristotele, “sono animali politici”, tendono cioè a raggrupparsi in comunità che possano garantire la sopravvivenze della specie. Queste comunità sono comunemente dette società e per moltissimi pensatori, contemporanei come antichi, sono l'unico luogo che possa garantire il vivere felice dell'uomo. La sopravvivenza di queste comunità dipende dalla coesione e la collaborazione tra tutti i suoi membri, i quali dovranno vivere nel reciproco rispetto e cooperare per far si che la società funzioni correttamente. Per sopravvivere e mantenere intatta questa coesione pacifica, ogni comunità stabilisce delle norme di comportamento che tutti gli individui devono rispettare. Queste sono le leggi, fin dall'antichità considerate l'unico garante della convivenza civile, senza le quali altrimenti l'uomo cadrebbe nella barbarie e l'anarchia. Le leggi vogliono fungere da imperativi morali e comportamentali e pretendono di essere rispettate. Per garantirne l'efficacia non possono fermarsi solo al livello di semplice “comando” o “divieto” ma devono ammettere la possibilità che qualcuno le infranga, riconnettendo a questa una conseguenza adeguata.

Queste conseguenze vengono dette sanzioni e in filosofia del diritto se ne distinguono 4 tipi: sanzioni preventive, dirette, indirette e punitive. Di quest'ultima categoria fa parte la pena carceraria. Le sanzioni hanno un duplice compito: da un lato devono garantire che, dopo l'infrazione della norma, questa venga ristabilita, in un modo o in un altro, anche solo simbolicamente; dall'altro devono fungere da deterrente per le future possibili infrazioni.

La sanzione perfetta sarebbe quella che impedisce una infrazione ancora prima che questa possa compiersi o comunque che possa riportare allo stato precedente una situazione che la legge impediva di modificare e che invece è stata modificata. Esistono tuttavia determinate norme che, se infrante, non possono essere propriamente ristabilite e quindi si deve ricorrere a sanzioni che costituiscano un surrogato della restaurazione dello status precedente. Queste sono le sanzioni punitive o meglio dette pene.

La privazione della libertà è una di queste. Il carcere, come pena, nacque probabilmente allorché la cultura dell'uomo raggiunse un livello tale da fargli ritenere la pena capitale come non efficace o comunque non preferibile.

Testimonianze di incarceramento ci giungono sin dall'antica Grecia. Nell'Atene del IV secolo a.C. ad esempio, chiudere gli individui indesiderati in prigione era una pratica comune. Come ci racconta Platone nel Fedone, Socrate, condannato a bere la cicuta, trascorre i suoi ultimi minuti di vita discutendo con i suoi discepoli in prigione.
La concezione antica della pena carceraria era sicuramente ben lontana dalla nostra. Oggi(GRASSETTO) noi intendiamo la prigione come uno strumento educativo, volto soprattutto a redimere e rieducare il reo, affinché possa, una volta scontata la pena, reinserirsi positivamente nella società. Ma questa concezione è un parto recentissimo delle moderne società, venuto alla luce solamente tra il XIX° e il XX° secolo, grazie all'adozione di un criterio più scientifico e attento di valutazione del reato.

Dall'antichità alla fine dell'età moderna però, il concetto di pena non assomigliava neanche lontanamente al nostro. Le pene erano considerate per lo più un metodo per allontanare dalla società individui fastidiosi o per vendicare dei torti subiti. La prigione ad esempio era vista come un semplice strumento per far sparire dalla circolazione le persone indesiderate. Essa non aveva alcun valore educativo o di redenzione, ma piuttosto fungeva da “magazzino” nel quale stipare i criminali e tutti gli individui che causavano “fastidi” alla classe dominante nella società. Lo scarso valore attribuito alla pena detentiva può esser ben compreso se si pensa che spesso a questa erano preferiti altri tipi di punizioni, come l'esilio, il “remo” o la pena capitale. Queste pene, oltre ad essere meno onerose della prigione per le casse dello stato, erano finalizzate essenzialmente ad eliminare il reo dalla società e non a redimerlo.

I Greci prediligevano l'esilio; i romani avevano il circo; nel medioevo prese particolarmente piede la tortura, soprattutto in ambienti ecclesiastici, e la galea, nella quale i criminali erano costretti a remare. Fino alla fine dell'età moderna, i sistemi di pena utilizzati dalle società europee rimasero prevalentemente invariati e riconducibili a cinque diverse tipologie: pena capitale, tortura, confisca di beni, esilio e detenzione.

Il giudizio sulla loro efficacia però, col passare dei secoli, era notevolmente cambiato. Si tendeva a ricorrere sempre meno alla pena capitale, giudicata moralmente inopinabile e inutile dal punto di vista deterrente. Le pene pecuniarie risultavano sempre meno efficaci giacché, con la nascita del capitalismo, nei tribunali si presentavano sempre più persone nullatenenti e alle quali quindi non poteva essere imposta alcuna tassa. Le pene corporali, pur continuando ad essere applicate, erano condannate da molti, soprattutto grazie all'enorme influenza del pensiero illuminista sulla cultura europea e, infine, l'esilio veniva ritenuto sempre meno funzionale, in particolar modo grazie all'invenzione della stampa, che aveva reso inutile l'allontanamento di dissidenti politici, e alla nascita delle entità statali, che non avrebbero certo accolto a braccia aperte i criminali provenienti dagli stati confinanti. L'unica tipologia a conservare la propria efficacia è stata la detenzione che, gradualmente, anche grazie alla nascita di scienze come la sociologia e la psicologia, è arrivata ad assumere l'impostazione odierna.

I discorsi da fare sulla filosofia della pena sarebbero infiniti. Si potrebbe discutere sulla validità delle leggi, spesso solo armi nelle mani dei governi. Oppure si può discutere ancora dell'effettiva efficacia deterrente delle pene o delle modalità di applicazioni di esse. Della stessa pena detentiva si possono mettere in dubbio sia la validità sia la legitti
mità e perfino la definizione stessa.


Tutt'ora il Penitenziario è definito “luogo dove vengono trattenuti individui privati della libertà personale”, ma con che diritto una società può privare un uomo della propria libertà? Forse che la libertà di ognuno derivi dalla società stessa? Ma allora che libertà sarebbe? La verità è che il concetto stesso di privazione di libertà è sbagliato. Non si può privare un uomo della propria libertà, non per motivi morali o etici, ma perché non è proprio tecnicamente possibile. La libertà è una caratteristica naturale dell'uomo. Anche se lo si rinchiude in una cella, esso non è privo della libertà. Non sarà libero di andare dove vuole, certo, ma avrà ancora la libertà di pensiero, di scelta, di opinione, di azione, anche se limitata. Questo è un obiettivo che il sistema prigione non può raggiungere. Ma una cosa può farla, anzi deve: esso può far comprendere al reo il proprio errore e deve rieducarlo positivamente in vista del rientro all'interno della società. Oggi siamo più che mai vicini a questo traguardo di civiltà, ma si tende purtroppo ancora a fraintendere la vera utilità dello strumento “prigione”. E' uno strumento potente ma, se usato male, rischia di far ottenere il risultato opposto: brutalizza i criminali e crea disadattati, uomini “istituzionalizzati” che non hanno la ben che minima possibilità di reinserirsi attivamente nella comunità.

2 Commenti

  1. Non credo affatto che siamo vicini a quello che tu definisci un “traguardo di civiltà”. Trovo piuttosto che il carcere oggi consegua esclusivamente il suo obiettivo sanzionatorio – ovvero separare gli individui considerati pericolosi e indesiderati dal corpus sociale detto sano -, ma, al di la di poche eccezioni, non realizza certamente quello del reinserimento.
    L'incarcerazione é di per sé un attentato alla dignità umana, e purtroppo negli ultimi anni si sta (ri)affermando nei discorsi e nelle pratiche politiche come “la” sanzione, “la” pena da applicare sempre e comunque. Trovo che la nostra società sia impregnata da una preoccupante volontà di punire, alimentata dalla frenesia securitaria creata dalle classi dirigenti, che in questi anni hanno favorito un forte ritorno del populismo penale, motore della produzione di leggi criminogene. Questo fa si che le patrie galere continuino a riempirsi ad un ritmo impressionante, portando cosi' il tasso si sovraffollamento a livelli mai visti, basti pensare che in certi centri detenzione si arriva a oltre 150%.
    Inoltre, lo spirito umanitario che sembra trapelare da certi testi di legge, addirittura dalla Carta costituzionale, e le belle parole sul reinserimento sociale rimangono una mera facciata, altrimenti non si spiegherebbe l'esistenza della pena dell'ergastolo, l'impressionante numero di suicidi (nel 2009: 122 in Francia e 71 in Italia), la scarsità di attività formative e di lavori qualificanti. Sempre tenendo a mente le presute finalità positive della detenzione, non mi spiego nemmeno l'architettura della maggior parte delle prigioni. Ovvero, se in qualche modo la giustificazione della separazione fisica dei condannati dal resto della società per motivi di sicurezza puo' reggere, trovo invece assolutamente paradossale, per non dire ipocrita, che all'interno delle prigioni italiane, francesi e statunitensi (per limitarmi ai contesti che conosco meglio) i detenuti siano rinchiusi in gabbie comme bestie feroci anziché favorire la riadattzione alla vita comunitaria. Perché tutto cio', perché oltre ai muri di cinta, oltre alle cancellate che separano dal mondo libero si aggiungono sbarre su sbarre anche all'interno?
    Nel tuo articolo parli poi di un presunto fraintendimento sull' utilità del carcere, accenni alle conseguenze di un suo cattivo utilizzo; per quanto ho detto sopra, credo invece che oggi in Paesi come l'Italia, la Francia e gli USA, la prigione sia ben coerente alla volontà di creare delle zone d'ombra dove nascondere , o per essere più espliciti per stoccare una parte d'umanità considerata a seconda dei casi scomoda, problematica, pericolosa, diversa.
    Per riprendere le tue parole, la prigione é certamente uno strumento potente, aggiungo io di controllo e repressione; il punto non é quindi che se ne fa un utilizzo cattivo, semplicemente va detto che non funziona per come é stata concepita. Lo dico alla luce del fatto che una volta sollevato il velo umanitario che tenta di coprirla, emerge la sua vera faccia, ossia quella d'una discarica umana che sicuramente non rende alla società persone virtuose e “rieducati” come molti continuano a sostenere.

  2. Sono d'accordo con te sul mal funzionamento in grandissima parte del mondo del sistema carcerario e della sua nocività e inutilità quando questo venga utilizzato al solo scopo di punire e reprimere le realtà scomode, come un tappeto sotto il quale nascondere un vaso rotto. Purtroppo in questo articolo mi sono dovuto fermare ad un livello più teorico del discorso, analizzare di più cosa significhi filosoficamente la prigione e che utilità teorica questa possa avere in una società. Dovendomi fermare a questo livello più astratto però, anche per non rendere troppo pesante il discorso, non ho potuto trattare molti problemi che avrebbero meritato un'analisi più attenta.
    Proprio come dici tu, le belle parole, lo spirito umanitario che trapela da qualche legge, c'è, si riesce a percepire. Questo spirito però, purtroppo, rimane in moltissime realtà incatenato alla parola e da lì non si muove. Proprio come hai detto tu, è solamente una facciata che (aggiungo io) consente a coloro che legiferano di dormire bene la notte e a tutti gli altri di non pensare più a quel problema.
    Il sistema in se, se le belle parole non si fermassero appunto solo al livello di “parole” ma passassero ai fatti, sarebbe un sistema giusto (mi riferisco certo al recupero, al reinserimento, quello cioè che un sistema penitenziario dovrebbe essere). Del fatto però che questo sistema non funzioni nella realtà, secondo me, non va incolpato il sistema. Il problema (e credo che tu intenda dire anche questo) sono le società che questo strumento si trovano ad usare. Trasformano uno strumento al servizio del cittadino in uno strumento al servizio del potente e dell'immagine che questo vuole dare. Immagine. Questo è il nocciolo della questione. La nostra società si ferma all'immagine. Non importa il contenuto, che una cosa funzioni o meno, che venga usata bene o meno, l'importante è l'immagine che di questa cosa si ha. E per il gruppo che detiene il potere, importante è l'immagine che di una cosa riesce a trasmettere alla massa. Ed ecco appunto il populismo al quale ti riferisci. Si da al popolo la zolletta di zucchero e tutti sono felici. E intanto gente che ha sofferto e ha sbagliato, continua a soffrire, trattata alla stregua di un rifiuto da interrare.
    Le leggi per far funzionare bene il sistema ci sono, basterebbe applicarle. Ma purtroppo a chi detiene il potere non interessa applicarle e tutto rimane solo una “buona idea” mai attuata.

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