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Scritto da nel Internazionale, Numero 67 - 1 Marzo 2010 | 0 commenti

Dove si rimpiange la miseria del proprio paese

Dopo aver traversato il Sahara in situazioni estreme, scappando da un mondo che non dovrebbe appartenere a nessuno, potrebbe accadere che, chi fugge dalla disperazione, venga rinchiuso in una delle tante carceri libiche, come Kufrah o Ganfuda, Djuazat, Misratah.

Chi ci è passato racconta di aver rimpianto la miseria da cui è scappato, perché almeno in quel caso, godeva di un minimo di libertà e di dignità. Purtroppo, non avendo risonanza mediatica come tante altre situazioni di disperazione nel mondo, solo nel caso di qualche orribile massacro spunta timido l’interesse delle grandi organizzazioni (quelle piccole che a fatica operano in quei posti, non riescono a catturare l’attenzione dei media). Questo, per esempio, è il caso di Amnesty e Human Rights Watch, che chiamate in causa dalle denunce di un detenuto somalo hanno più  o meno reso pubblico l’accaduto.
Si è trattato di una rivolta di persone rinchiuse nel grande carcere di Ganfuda, sedata nel sangue. Quel giorno di Maggio del 2009, i detenuti della casa di detenzione (la maggior parte di nazionalità Nigeriana o Somala), hanno deciso di ribellarsi cercando di scappare in blocco dalla prigione. Le guardie, prese di sprovvista e in minoranza numerica, sono intervenute in un’escalation di violenza, cominciando prima a usare i manganelli, passando per i coltelli fino alle armi da fuoco con le tragiche conseguenze che ne sono scaturire. Quel tentativo di ribellione, definitivamente sedato è stato fatto pagare caro. Raccontano che da quel giorno per una settimana, a ogni cambio di guardia, i secondini piombavano nelle celle massacrando di botte  le persone al loro interno, con manganelli normali ed elettrici.


I tragici accordi col governo italiano, per quanto riguarda la questione dei migranti, ha peggiorato la già drammatica situazione delle carceri libiche.
Naturalmente le donne, sono quelle che ne pagano maggiormente le conseguenze. Dai racconti di chi ha vissuto quelle esperienze, in questo caso donne, ci si rende conto di quanto la situazione sia terribile. A partire dal viaggio che, iniziando dalle coste mediterranee, da dove i poveri migranti sono in procinto di salpare,  finisce come già detto nelle varie prigioni del paese. Quasi sempre in pulmini senza finestre, segregati anche per 3 giorni. A Kufrah, per esempio, alloggiavano 60 persone a stanza, con un solo bagno e di conseguenza in condizioni igieniche disastrose, causa di numerose infezioni.

Le donne presenti, erano vittime di violenze sessuali di gruppo, sotto gli occhi di tutti. Molte di loro rimaste in cinta erano costrette ad abortire, spesso a scapito della vita.
Gli uomini se tentavano di protestare venivano picchiati, fino all’annientamento fisico.
Le guardie carcerarie adottano le più “raffinate” torture fisiche. L’unico modo per uscire da quell’inferno è pagare non meno di 400 dollari.

L’indifferenza da parte di tutte le autorità competente, libiche, italiane, somale, eritree o nigeriane, rende il tutto tragicamente complesso. Migliaia sono le denunce partite dai sopravvissuti che cercano con la loro testimonianza di richiamare l’attenzione dei governi dei paesi maggiormente coinvolti nella questione. Tra questi spicca l’Italia, responsabile moralmente e non solo, quanto chi compie questi orrori.  Sono migliaia ogni anno le persone che si ritrovano in questo inferno, il blog è pieno di foto e video di reporter  che sono riusciti a documentare le tragedie.

L’indifferenza dei così detti paesi occidentali e di riflesso della loro opinione pubblica, è uno degli ostacoli più ostici da superare per la risoluzione del problema.

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