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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 67 - 1 Marzo 2010 | 0 commenti

Il conte di Montecristo



La premessa alla lettura di questo articolo, è che mantenere il necessario distacco nei confronti di un oggetto amato, risulta un esercizio particolarmente complesso… Il Conte di Montecristo è appunto uno dei tre romanzi che mi porterei nella tomba.


Dantès passò per tutti i gradi d'infelicità che subiscono i prigionieri dimenticati in una prigione. Cominciò dall'orgoglio, che è una conseguenza della speranza e una coscienza dell'innocenza; poi venne al dubbio [...] finalmente cadde dall'alto del suo orgoglio.


La fortuna senza tempo del Conte di Montecristo, deve molto alla capacità di Dumas padre, di avervi stillato con sapienza tutti i tòpoi letterari capaci di catalizzare ad un tempo, l'attenzione del lettore e la sua immedesimazione con le angherie subite dal protagonista. Eros e Tanatos, l'innocenza tradita e la vendetta, forse più crudele e chirurgica che mai sia stata narrata, sono gemme sapientemente confezionate nello svelamento del racconto.

Per inciso, si potrebbe notare, come in tempi di retorica e perdono evangelico, questo romanzo d'appendice continui a riscuotere un variegato successo di pubblico: forse, secoli di cristianesimo e lo sbandierato trionfo morale dell'indulgenza, non sono riusciti a scalfire una pulsione selvaggia e profonda, ma pur sempre affascinante… In fondo, la giusta vendetta rappresenta dai tempi dell'Iliade un archetipo umano immodificabile.

Nel saggio introduttivo di Umberto Eco all'edizione Bur, le note del semiologo sul romanzo ad un tempo ben scritto-mal scritto, sono illuminanti per gli addetti ai lavori. In ogni caso, nonostante il fiorire della prosopopea, l'intreccio narrativo e l'introspezione dei personaggi continuano a suonare uno spartito accattivante per i fruitori dell'opera. Del resto, è lo stesso Eco ad assolvere un veniale vizio di forma: Si può essere blasè, criticamente avveduti, saper molto di trappole intertestuali, ma si è presi dal gioco, come nel melodramma verdiano. Mélo e Kitsch, per virtù di sregolatezza, rasentano il sublime, mentre la sregolatezza si ribalta in genio.

In ogni caso, a prescindere dalla propensione estetica del lettore, non si può ignorare la storia e la genesi dell'opera: Alexandre Dumas era un mercenario delle lettere. Forse il mercenario più creativo e talentuoso degli ultimi tre secoli, ma pur sempre un mercenario… Le sue opere nascevano pagate a cottimo, a volte addirittura per righe prodotte. Era normale, che un epicureo convinto e spendaccione come lo scrittore francese, si dilungasse nei dialoghi e nelle descrizioni per massimizzare il profitto delle proprie fatiche letterarie.

Tuttavia, e questa è una peculiarità degna di nota, la fortuna di feutillon come il Montecristo, deve molto all'ironica inversione capace di far storcere il naso ai puristi delle lettere: la lunghezza parossistica non risente che accidentalmente del vizio ontologico legato alla profusione dell'inchiostro a cottimo.

Nel romanzo, una parentesi di fondamentale importanza nell'intreccio narrativo, è rivestita dall'arresto, ed in particolare dall'ingiusta detenzione del protagonista Edmond Dantès. Quantitativamente, si può notare che la prigionia si protrae per un centinaio di pagine, di grafia minuta e dense d'avvenimenti.

La segreta del castello d'If, cambia come uno specchio deformante l'innocente fisionomia del detenuto: Edmondo viene arrestato con lo stupore di un candido Volteriano, ma in seguito, attraverso tutti gli amari gradi che portano dalla consapevolezza esistenziale alla coscienza dell'homo homini lupus, riuscirà ad evadere con un unico progetto. Quello di spargere il sangue dei suoi carnefici.

La prigionia dunque, svolge una duplice funzione e implica un radicale mutamento psicologico: da un lato, il protagonista perde ad un tempo l'innocenza, l'amore e la fiducia nel genere umano, dall'altro, grazie all'incontro con l'abate Faria, potrà accedere a quella forma di sapienza, da cui la sua umile origine l'aveva distolto. Il dominio della storia, delle lingue, della chimica, e soprattutto l'eredità del leggendario tesoro della famiglia Spada, sono gli ingredienti miscelati da Dumas per tratteggiare la ri-nascita di un individuo dalle proprie ceneri, come nella leggenda dell'araba fenice.

In fondo, senza i rigori dell'isolamento, Edmond Dantes sarebbe rimasto un ottimo marinaio e un buon marito per la bella Mercedes, ma il fato aveva in serbo per lui un destino diverso. La belva assetata di vendetta che evade dal carcere, è un individuo superiore. E' un moderno cavaliere dell'apocalisse che identificandosi con la divina provvidenza si erge sull'incerta morale, di chi per invidia, per amore, o per opportunità, aveva contribuito a seppellirlo vivo.

Se risulta arduo, stabilire eticamente quale sia la faccia migliore della medesima moneta, in una prospettiva squisitamente letteraria non sussistono dubbi: le virtù del buon Edmondo rasentano la noia, al contrario, la vis guerriera del Conte e la chirurgia del suo piano machiavellico, tolgono il sonno in un crescendo rossiniano.

Resta vero, che senza le angherie subite dal primo, la vendetta del secondo non avrebbe incontrato il favore di dio, e soprattutto dei lettori.

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