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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 67 - 1 Marzo 2010 | 0 commenti

Il De Profundis di Oscar Wilde







Pubblicato postumo nel 1905, il De Profundis è una lunga (probabilmente la più lunga mai data alle stampe), appassionata lettera che Oscar Wilde, autentico enfant de son siècle, indirizza dal carcere di Reading al suo ex amante Lord Alfred Douglas. Tra il gennaio e il marzo del 1897, prossimo alla scarcerazione dopo due anni di terribile prigionia, Wilde redige questo lungo testo. Non è difficile rintracciare le molte tinte che animano il De Profundis, e che spaziano da un rancoroso astio nei confronti di colui che viene considerato il vero responsabile della sua disgrazia, e ritratto come un intelletto modesto (”Il tuo cervello? Era sottosviluppato. La tua immaginazione? Era morta”, p.112) ma che appena in libertà cercherà ancora, a una sorta di misticismo delirante che ci scampa per poco da paradossali identificazioni con il Figlio di Dio (con tanto di inneggiamenti all'Amore che sconfigge l'Odio e riferimenti, per la verità più che altro estetici, a San Francesco d'Assisi). Ciò che qui compie Wilde è un vistoso corteggiamento del proprio senso di colpa, che cerca di motivare con la propria natura artistica, così come il sommo principio del dolore, che diviene la sola ragione per una vita autentica.

Nella selva di parole fatta di risentimento più o meno affilato, trascrizioni cortigiane di giornate passate combattute tra Arte (sempre ostentatamente maiuscola) e vizi, tracce di un narcisismo che è impossibile camuffare con lo spiccato gusto per gli aforismi, classismo declinato secondo le maniere più varie e persino ingenue (p.60, p.es.), e ancora citazioni in parte superflue in parte ostentatamente autoreferenziali, in mezzo a tutto questo – che appartiene talmente all'epoca, al personaggio, al bisogno di farsi forza per sopravvivere alla sciagura e al mito vivente di Wilde da non indurre alcuno stupore – e naturalmente molto altro ancora, emergono però alcuni particolari che anche alla lettura odierna offrono spunti interessanti.

Se non è particolarmente interessante leggere di un uomo che cerca in ogni modo di accettare il proprio ingrato destino (”dov'è il Dolore, là il suolo è sacro”, p.52), e di darne persino giustificazioni teoriche magari nel segno della filosofia cristiana o di un generico sentimento romantico di arte (pardon: Arte) che, per forza di cose, lo portano a contraddizioni se non a vere e proprie aporie (ambiguo è per esempio il rapporto con la cultura greca, ora vista come superata da Cristo e dallo strepitoso racconto dei Vangeli, ora invece insuperabile: ma ciò per dirla con le sue stesse parole è “secondo ispirazione”, quindi lecito), molti sono invece i passi che con notevole intensità ci aiutano a rammentare, se ce ne fosse bisogno, quale annullamento dell'umano rappresenti, in ogni caso, la reclusione.

Ciò che più interessa in questa sede è mettere in rilievo anzitutto il rapporto di Wilde con il dolore specifico della carcerazione. Il carcere è un luogo di solitudine e di implicita fine delle vanità (p.1): qui niente avviene (p.18) e il dolore soltanto scandisce le esistenze. Wilde ci parla di sofferenza come unico mezzo per il quale esistere, perché unico strumento di coscienza dell'esistenza stessa. La riduzione dell'identità a una cifra e a una lettera, quella della piccola cella in cui si è reclusi, costringe a rivolgersi all'unica traccia possibile di continuità: nel legame che si istaura tra la sofferenza passata e quella presente delle carceri, egli rintraccia la propria identità come essere umano. Lontani dalla felicità, persino il ricordo di essa svanisce: non c'è alcuna consolazione possibile. Il rischio, anzi la certezza, è quella di pensare ogni cosa passata, anche gradevole a suo tempo, come votata finalisticamente al dolore. Ciò che si apprende in carcere è l'inellutabilità delle cose (p.48). Il senso di impotenza pervade l'individuo, lo riduce, lo piega a quell'unico lunghissimo momento che è la sofferenza. Il tempo ignora stagioni, il ripetersi delle azioni marca la non progredibilità del tempo: si svolge così un'unica interminabile stagione, quella del Dolore. Il pensiero è immobile tanto quanto il tempo, nel “crepuscolo perpetuo della cella”. Il carcere in questo senso è l'applicazione mostruosa e scientifica del principio di ripetizione che a p.10, sottoforma di abitudini, veniva etichettato come la ragione principale dell'insuccesso intellettuale.

Ma neppure questa orrenda routine basta alla salvezza, attraverso l'ottundimento e l'esclusione dal mondo. Alla sua cella vengono a battere un dolore dopo l'altro, sottoforma di notizie di infamie sul suo conto, visite negate dei soli amici rimasti, notizie funeste.


Con tutto il suo corredo, a volte strampalato, di indizi salvifici assegnati al dolore e alla reclusione stessa, il De Profundis è la dimostrazione di quanto possa essere negativa l'esperienza del carcere, di quanto – proprio perché Wilde non fa altro che affermare il contrario – il dolore, la sofferenza, la riduzione di un'esistenza alla esclusione dal mondo, possa annientare. Le non illuminanti rivelazioni sull'Arte, il Bello, la Vita e soprattutto il Dolore, hanno l'effetto, il solo effetto di persuaderci come, al di là di quale sia la colpa e di come sia andatto il terribile ingranaggio della punizione giudiziaria, il tema della privazione della libertà di un individuo continui ad essere un argomento su cui continuare a vigilare con la massima accortezza.

Al di là di questa che, pur tristemente, rimane un'affermazione banale, perché evidente nelle molte vicende, famose o meno, di chi il carcere ha dovuto e deve conoscerlo, e perché del tutto appartenente al nostro modo di stare al mondo ed essere società, c'è però qualcosa d'altro a suscitare interesse. Più volte Wilde in queste pagine afferma che il vizio supremo è la superficialità e che in fondo qualunque cosa venga condotta fino in fondo è giusta. Lo ribadisce, è il vero refrain di questa lettera. Tra le tante sentenze di cui il testo è disseminato è quella che più di altre vibra di autenticità. È ciò che Wilde ha veramente appreso. Questo mi pare tra tutti la pennellata più affascinante dell'esteso e discordante affresco wildiano. Rimosso ogni moralismo, tutto può essere giusto se riesce nel completamento, nella realizzazione. È qui che dobbiamo cercare il senso della vita di Wilde, il quale di fatto, nonostante la straripante messinscena di pentimento allestita nel De Profundis, vuole solo dirci che la sfortunata vicenda dei processi, della bancarotta, dell'incarcerazione e dell'infamia – e anzi tutto ciò che venne a partire dall'incontro stesso con Douglas – sono state la spiacevolissima interruzione di qualcosa che compiendosi, avrebbe lambito e forse ottenuto la perfezione, cioè appunto la sua piena realizzazione.

Il carcere è la suprema delle disgrazie perché appiattendo le umanità, rendendole simili nel dolore e nella privazione, svuotandole della faticosa e sublime costruzione dell'individualità, le sottopone al massimo impoverimento possibile. In definitiva rende ciò che era profondo superficiale, e di per sé stesso ingiusto, almeno nel senso complesso e sfaccettato di cui in fondo alle molte parole del De Profundis, vuole davvero dirci Wilde. Un apparente paradosso, che affligge il solo modo di cui ragionevolmente disponiamo per fare giustizia.

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Edizione esaminata: Oscar Wilde, De Profundis, Feltrinelli 1991

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