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Scritto da nel Numero 67 - 1 Marzo 2010, Politica | 0 commenti

Il punto di Gherardo Colombo

Una delle parole più antiche del mondo è la parola prigione, declinata in molti modi, fra cui quello di carcere. E' citata persino in uno dei testi più antichi, IL testo per alcuni: la Bibbia.

Codesto lemma, che deriva dal latino coercio, sta ad indicare l'istituzione atta a restringere, rinchiudere e punire i rei e tutti quei soggetti, ritenuti pericolosi per la società, perché si sono macchiati di un crimine. Si entra nelle carceri, se si commette un crimine, al fine di essere puniti e rieducati. Si entra in delle strutture segregative per espiare il fio delle proprie colpe, secondo il principio finalistico del carcere risalente alla chiesa.

Punizione e rieducazione sono due espressioni, apparentemente ossimoriche, che viaggiano di pari passo quando si parla di detenuti.

Si parla di pena come rieducazione perché si suppone che, chi entra in carcere debba compiere un percorso, che gli permetta di pagare per il suo errore e di riabilitarsi ai suoi occhi e a quelli della società tutta. Questa è pura utopia, dal momento che dati statistici rivelano che il carcere produce recidivi: due persone su tre che escono dal carcere tornano a delinquere, o vivono un disagio notevole per la loro condizione di reietti e di non riabilitati.
Ci si può chiedere se il carcere sia davvero la soluzione migliore per ripristinare il rispetto della legalità.

A chiederselo, fra gli altri, è un esperto in materia: Gherardo Colombo, l'ex magistrato che ha scoperto la loggia P2 e ha condotto inchieste celeberrime, come quella di Tangentopoli.
Un uomo che, col suo alto senso dello Stato e con il suo operato, ha cercato di ridare un tono di dignità al nostro Paese, prima operando come magistrato e ora come un uomo “comune”, dall'alto senso civico, che si reca nelle scuole, nelle biblioteche e nelle librerie a parlare di legalità.

Colombo suole dire, a chi gli chiede di esprimersi in merito alla questione carceraria italiana, che la detenzione probabilmente non è la soluzione giusta, dal momento che, generalmente, non educa e spesso insegna a delinquere, piuttosto che a rispettare le regole.
E questo anche a dispetto di quello che sostiene la Costituzione italiana, che prevede il recupero della persona reclusa.

La pena dovrebbe servire alla rieducazione, ma come è possibile reinserire nella società il detenuto uscito di prigione?

Non ci si può certo limitare ad impedire che i cittadini commettano dei crimini, recandosi danni vicendevolmente. Serve ben altro. Occorre trovare delle strade che insegnino a rispettare le regole, soprattutto quella sacrosanta del rispetto della dignità e della persona umana, e permettano di reinserire la persona nella società, piuttosto che emarginarla ulteriormente.

E prima ancora di trovare una soluzione atta a rieducare chi commette un crimine, come ci ricorda lo stesso Colombo, bisogna fare in modo che la società, che attraverso le leggi è regolata, progredisca. I cittadini non devono avere solo limitazioni dalla legge, ma devono anzitutto avere più spazio per vivere meglio.

Occorre educare alla legalità, ovviamente, ma per farlo è necessario che il rapporto tra i cittadini e le regole non sia segnato dall'incomunicabilità. L'arbitrio è nemico sia della ragione che degli uomini, che sono portati a non rispettare ciò che non capiscono, o a non rispettare chi non li tutela.

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