Il teatro e il carcere
Come ogni primo giorno di una nuova esperienza, il teatro entra in carcere da neofita, in punta di piedi, con il suo bagaglio millenario di racconti, giochi, relazioni, pronto ad accogliere nuovi input dall'umanità che gli si porrà dinanzi al suo ancestrale cammino.
La trafila burocratica all'ingresso ti fa già percepire la rigidità che regola le vite all'interno un istituto di detenzione, o meglio di coercizione, nel quale ogni anima è schedata su un registro, supervisionata da telecamere, ognuno insignito di un nome o un ruolo, fra i quali i teatranti, che figurano come operatori esterni. Fuori dalle alte mura che separano le due società, i teatranti attraversano spesso uno stato di costrizione affine ai detenuti: ciò che li differenzia è il grado di consapevolezza con cui agiscono nel mondo della finzione, all'interno del quale gli è data la possibilità di scegliere.
Il primo impatto di fronte un detenuto che ti osserva entrare con la tua valigia è che a loro non sia stata donata questa opportunità di scelta, ma il filo tessuto dalla quotidiana esistenza si sia spezzato, con la complicità di fattori esterni da cui non ci si è saputi adeguatamente difendere.
Un giorno, fra le tante attività che all'interno del carcere sono offerte ai detenuti, arriva il teatro.
Ma cosa è il teatro? Monologhi che fendono l'aria, costumi sfarzosi, risate, pianti, personaggi e attori.
Queste sono le parole di un immaginario con cui mi sono scontrata quando a questa domanda i diversi detenuti provano a rispondere. Nessuno prevede la fatica con cui si debba guadagnare lo spazio di finzione perché ogni essere umano esista per quello che fa e dice, ma quando si sperimenta la “messa in vita” di se stessi attraverso il gioco, la narrazione fisica e verbale, ecco gli occhi tremare, di una sana paura, di un onesto denudamento; è a quel punto che rimbombano i sorrisi, la fatica, le proteste, silenziose, che oltrepassano i confini delle sbarre, o forse di questa terra. Tutti intrisi di una nuova luce, i detenuti, inizialmente diffidenti alle proposte del regista e dei suoi operatori, guadagnano rapidamente una fiducia in se stessi e negli altri perduta con la sconfitta del carcere, una salutare spavalderia, che, compito dei “capo”, è canalizzare nella costruzione di uno spettacolo teatrale. In quel frangente, storie di solitudine si intrecciano per trasformarsi nel racconto di una comunità multilingue, perché il carcere ormai è l'esempio più lampante degli effetti distruttivi della globalizzazione. Da quella sconfitta sociale, nasce una nuova Babele, nella quale ognuno può esprimersi seppur nell'incomprensione degli altri, che in questo cammino di gruppo imparano il dono dell'ascolto, offrendo ai protagonisti del momento attenzione e complicità.
In teatro si impara ad ascoltare, la voce di te stesso e degli altri, del mondo e di un mondo trasfigurato con l'individuale sensibilità. In carcere si è costretti ad ascoltare, e non si possono tappare le orecchie, perché a una disobbedienza segue una punizione. Il teatro in carcere porta quell'aspetto giocoso dell'essere umano che non dovrebbe mai andare perduto: la facoltà di mediare con le costrizioni, senza farsi annientare da esse; allo stesso modo i bambini aprono e chiudono le orecchie con i palmi delle mani quando vogliono riappropriarsi della propria facoltà del sentire e non farsi sopraffare dai “rumori” coercitivi.
Occorre molto tempo perchè un gruppo di 10/15 persone facciano rinascere un nuovo modello di società. Il regista Paolo Billi, con cui ho collaborato nel 2008 per la realizzazione de “I viaggi di Gulliver” all'interno della Dozza, ha impiegato circa tre mesi per costruire, con la sua autorevolezza, uno spettacolo di alta qualità e umanità. Un tempo che potrebbe sembrare lungo per i non addetti ai lavori, è necessario perché dalla conoscenza reciproca attraverso il gioco nello spazio si passi ad una elaborazione più complessa dei testi, del contenuto e dei significati che ricoprono per ogni partecipante. Il passaggio concreto da persona a dramatis personae avviene nel momento in cui l'attore riesce ad attribuire una serie di sfumature tutte personali a un tratteggio diafano che fino ad allora è vissuto solo sulla carta. Con le risorse della voce e del corpo, sapientemente allenate durante il momento laboratoriale, il detenuto guadagna la sfera della fantasia, dove si può danzare, urlare, piangere, dialogare, in quel carcere ora trasfigurato in un altro dei mondi possibili.
Il teatro è un sapiente mestiere artigianale, nel quale si scava dentro se stessi con lo scalpello perché rinasca sempre una nuova forma, migliore della precedente. E questo non significa fornire illusioni, come molti detrattori affermano in merito al beneficio “terapeutico” del teatro in carcere, ma trasmettere, nel passaggio dei saperi, nuovi strumenti con i quali ampliare la percezione e i valori della propria esistenza, con i quali crescere insieme, detenuti e operatori, nel difficile cammino fra finzione e verità, costrizione e libertà, che costella la nostra vita su questa terra.