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Scritto da nel Intervista, Numero 67 - 1 Marzo 2010 | 0 commenti

Intervista a Paolo Billi




Abbiamo intervistato Paolo Billi, presidente della Cooperativa sociale Teatro del Pratello, che da anni opera nella realtà delle carceri bolognesi. Il progetto teatrale all'interno della Dozza è iniziato solo da tre anni, mentre molto più vissuta è l'esperienza dentro al minorile, dove con il Teatro del carcere del Pratello sono riusciti a creare qualcosa di unico in Italia, unico caso in cui degli spettatori entrano in carcere per vedere lo spettacolo. “Parliamo di 1200 – 1300 persone e fino a 21 repliche a spettacolo” mi racconta Paolo, nel suo studio situato quasi di fronte all'istituto correttivo.

Abbiamo voluto iniziare l'intervista con un domanda semplice, è la sua prima risposta ci ha un po' spiazzati.

Paolo perché è importante il teatro in carcere? Quali sono i benefici per un detenuto?

Questa è la questione cardine, perché se io rispondo come teatrante, e rispondo come teatrante, ecco io, di fronte a questa domanda, rispondo che il teatro non serve assolutamente a niente! Anzi, non deve servire a niente. Paradossalmente, è nel momento in cui non serve che allora serve veramente. Questo è il momento fondamentale. Io faccio teatro, non faccio l'assistente sociale, non sono un educatore. Il mio operare all'interno di questi contesti è diverso da quello che fa una figura professionale tipica. Io parto dalla gratuità del fare, in un luogo come il carcere in cui tutto quanto viene fatto perché c'è uno scopo, fare una cosa per il piacere di farlo, per la cura verso di sé, questo, come dire, è la base. Negli adulti questo è molto concreto. Io ho visto in questi tre anni che le persone si affidano completamente e quindi la responsabilità nei loro confronti è enorme, ed è la condizione per creare uno spettacolo. Perché io con loro creo uno spettacolo non è un'attività laboratoriale finalizzata all'espressione. Certo è fondamentale tirare fuori da loro alcune cose, ma per poi metterle dentro la costruzione dello spettacolo. Il processo senza la conclusione non appartiene al mio fare.

Poi attraverso lo spettacolo creo il contatto con l'esterno e questa è l'altra cosa fondamentale: così come al Pratello sono riuscito a costruire un'esperienza per cui entrano più di 1200 spettatori e con due tre settimane di repliche per ogni spettacolo; alla Dozza la mia scommessa è di costruire spettacoli per uscire dalla Dozza, non per portare gente dentro.

Paolo gesticola molto, parla lentamente. Ci tiene a sottolineare l'importanza dello spettacolo, la finalità del progetto, la costruzione, la concretezza del fare. Non parla quasi mai di detenuti, parla di attori. Sembra quasi che non abbia nessun altro interesse che non sia quello di fare teatro.

Io, sia con i ragazzi, sia con gli adulti, mi pongo come un regista. Chiaramente il mio fare ha un precipitato pedagogico, non lo nego. Con i ragazzi lavoro tre ore la mattina, tre ore il pomeriggio. Il fatto di riuscire a tenerli tre ore, senza pausa, sfido chi è in grado, quando dopo venti minuti la prima cosa che viene da fare è fumare una sigaretta. Attraverso il mio fare li pongo in situazioni concrete, non vado a spiegare che cos'è la responsabilità, è nel fare concreto, nel costruire uno spettacolo che le persone sperimentano che cos'è la responsabilità verso di sé, verso gli altri, la precisione, la ripetizione.

Con gli adulti è diverso, anche da loro pretendo molto, e un uomo, che si sente ripetere “no rifai”, “no rifai”, e così via, diventa una situazione da sostenere che non è assolutamente semplice. Però poi vedo che in realtà è scattata in tutti una passione che, come dico spesso, faccio fatica a ritrovare tra i liberi, anche tra gli attori professionisti e tra quelli che si credono di avere delle vocazioni teatrali. Le passioni che io ho incontrato in tutti questi anni tra chi non ha scelto di fare teatro, ma si è ritrovato a farlo, questa passione è molto più forte, molto più interessante tra loro mentre faccio fatica a trovarla fuori.

Secondo lei nelle istituzioni prevale la volontà punitiva o rieducativa?

Punitiva. E' un contenerli, è un segregarli. Veramente oggi come oggi è semplicemente contenerli, separarli dall'esterno. Non è direttamente punitiva, questo no. Contiene, segrega, chiude, separa, di conseguenza punisce. Che il carcere serva a qualcosa… il carcere non serve a niente, soprattutto con i minori. Allora mi chiedo: perché continuo a operare dentro questi luoghi? Chi me lo fa fare? Da una parte quello che dicevo prima, sono luoghi che mi permettono l'incontro con un'umanità straordinaria per tanti versi, che mi permettono di trovare le ragioni di continuare a fare teatro, sono luoghi speciali, extra-quotidiani e solo in quei luoghi io riesco a trovare persone, che siano ragazzi o che siano adulti, per costruire quello che per me è il significato profondo di fare teatro.

Ci parli di Nastasja, lo spettacolo che porterete all'Arena del Sole il 19 e 20 marzo.

Nastasja è tratto da “L'idiota” di Dostoevskij. L'anno scorso si è fatto un lavoro propedeutico di improvvisazione su alcune pagine del romanzo, e sull'individuazione da parte degli attori di alcuni personaggi con la quale potevano sentirsi in sintonia. Da questo si è passati a un laboratorio di scrittura, che poi non ha prodotto nessun testo per lo spettacolo, è stato un laboratorio di scrittura per entrare dentro a certe tematiche e certi personaggi (vedi l'articolo di Filippo Milani Attraversare l'idiota… sul lavoro svolto e con alcuni estratti dei testi prodotti ndR). A questo è seguito un laboratorio di ballo, perché nello spettacolo c'erano due valzer, e, far ballare il valzer a un tunisino e a un pachistano è stato divertente, ma ci siamo riusciti. Poi è arrivata la fase del mio lavoro in cui abbiamo messo su il tutto. Lo spettacolo comincia dalla fine del romanzo, quando Rogozin e Miskin si trovano per l'ultima volta insieme e Rogozin mostra il cadavere di Natasja che ha appena ucciso. Da lì si torna indietro attraverso alcuni flashback che riportano ai momenti salienti della storia.

Durante questa chiacchierata, mi sono accorto che è uno spettacolo estremamente crudele: perché è fatto da cinque attori della Dozza, da cinque giovani attrici. Non c'è scena, ci sono solo 4 letti e sei sedie. Basta. Qualche candela o lampada a petrolio, perché non avendo soldi per fare altro, si è fatto di necessità virtù. E il pubblico, sia alla Dozza, sia all'Arena del Sole, sarà intorno. Quindi è uno spettacolo a pianta centrale, non c'è scena, non c'è nulla, sono solamente loro, non hanno la parete, non hanno le spalle coperte, non hanno un punto buoi, non ci sono vie di fuga, sono circondati dal pubblico e questo è crudele, assolutamente crudele. Per un ora e dieci di spettacolo sono lì, soli, senza elementi di salvataggio, nessuno, solo i compagni.

Paolo ha accennato alla carenza di fondi per provvedere alla costruzione di uno scenario. Dietro la mancanza dei soldi c'è una vicenda tipicamente italiana, che stupisce solo per il fatto di trovarsi in una delle sue regioni più ricche ed efficienti. I soldi all'inizio c'erano e anche gli appoggi. Ci ha raccontato che il progetto teatrale all'interno della Dozza partì tre anni fa su invito dell'allora magistrato di sorveglianza e della direzione. Nel volgere di pochi mesi si ritrovò “senza padri né madri”, poiché quelli che lo avevano sostenuto andarono via(trasferimenti, sostituzioni). Nel frattempo erano stati avviati un laboratorio di teatro e uno di scrittura, sul tema “I viaggi di Gulliver”. Dopo quattro mesi di lavoro, il progetto produsse uno spettacolo che ebbe la fortuna di venire inserito nella stagione teatrale dell'Arena del Sole, aprendo l'avventura di portare fuori i detenuti con un permesso lavorativo. E questo avvenne sia nel mese di Dicembre del 2008, che qualche mese dopo, con una tournée a Ferrara. Questa fu una piccola impresa, perché quello che a Volterra è normale amministrazione, qui era abbastanza difficile da fare. Forti di questo successo, carichi di lodi, inaspettatamente i progetti della seconda annualità non vennero finanziati da nessun ente locale, né il Comune, né la Regione, che pure si era presa l'impegno. A quel punto, gli operatori della Cooperativa decisero di continuare a lavorare all'interno a titolo gratuito. “Semplicemente perché” mi dice Paolo, “c'era un legame costruito con le persone dentro, che ci avevano dato fiducia, alcuni di loro sono usciti dopo anni grazie al teatro, quindi si è creato con loro un rapporto umano molto intenso, era dovuto a loro di continuare e di non lasciarli sospesi perché non c'erano i denari”. Qualche tempo fa è arrivato un po' di ossigeno dalla Provincia di Bologna che ha dato un piccolo contributo.

Prima di concludere vogliamo raccontare un altro piccolo aneddoto: gli attori per poter uscire dal carcere e partecipare allo spettacolo, devono avere il beneplacito del Tribunale di sorveglianza. Si tratta di un permesso di lavoro e non di un permesso premio. Le cinque domande sono state inoltrate e al momento della stesura di quest'articolo (8 marzo 2010), a undici giorni dalla prima, non è ancora arrivata alcuna risposta. “Probabilmente arriverà a tre giorni dallo spettacolo” ci dice Paolo “per lo spettacolo precedente hanno dato il permesso solo a tre attori su sei, ma li abbiamo potuti sostituire con dei servi di scena.” C'è di mezzo un teatro, un pubblico pagante, il lavoro di tante persone. “Questa volta se mi manca un attore non so cosa fare”.

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