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Scritto da nel Internazionale, Numero 69 - 1 Maggio 2010 | 1 commento

Alì e i 90 rifugiati afghani

Alì e i 90 rifugiati afghani, una storia da Mille e una notte… nelle fredde strade di Roma.
Dall'Afghanistan all'Italia: 3 anni tra guerra, paura, fuga, discriminazione, richieste di asilo e solitudine. Il racconto di un giovane rifugiato politico.

“Sai qual è l'unica vera differenza tra l'Italia e l'Afghanistan? Noi abbiamo la guerra e voi no.” Parole dure quelle di Alì, mentre mi guarda intensamente negli occhi porgendomi un tè in segno di amicizia. “Lì non avevo una vera casa, qui nemmeno. Lì non avevo un lavoro che mi permettesse di vivere dignitosamente, qui se riesco a distribuire volantini e comprarmi un po' di pane devo ringraziare Allah. Non è cambiato nulla. L'unica differenza è che in Italia posso camminare tranquillo senza che mi esploda una mina in faccia”.
Alì è un rifugiato politico afghano, ha 19 anni, è arrivato in Italia tre anni fa dopo un lunghissimo viaggio da incubo, con una valigia piena di speranze. Oggi è profondamente amareggiato perché in tutto questo tempo non è riuscito a combinare nulla. Mi fa segno con le mani di guardarmi intorno e mi dice “Guarda come vivo. Se la mia famiglia lo sapesse… Che vergogna! Loro hanno venduto tutto per darmi un po' di soldi affinché lasciassi l'Afghanistan e venissi in Europa”. Ali oggi vive “temporaneamente” in uno pseudo centro di accoglienza che, per l'emergenza freddo, il Comune di Roma ha predisposto presso l'Ospedale Forlanini. Il 31 marzo, burocraticamente parlando, l'emergenza freddo è terminata e il destino di Alì e degli altri 90 rifugiati afghani, ospiti della struttura sanitaria, è incerto. Domani potrebbero essere sbattuti nuovamente in strada.

Mi sembrava sciocco chiedere ad Alì perché avesse lasciato il suo paese alla volta del vecchio continente. Dalla guerra all'Europa, terra dei diritti umani: il viaggio è quasi obbligato. Chissà che immagini passano nella Tv afghana per far credere ad Alì e alla sua famiglia che qui da noi si può aspirare ad futuro migliore? Se facessero vedere come davvero vivono i rifugiati afghani in Italia, quanti ancora ne arriverebbero? Quanti ancora affronterebbero questo viaggio da incubo in container e in barconi tutt'altro che umani?

Alì continua a raccontarmi la sua storia. A un certo punto mi fa vedere orgoglioso il suo curriculum vitae, un pezzo di carta che testimonia la sua forte volontà di lavorare e di “farcela”, di dimostrare alla sua famiglia che i loro sforzi non sono stati vani. “Mi ha aiutato a farlo una ragazza di un'associazione di volontari che tanto si preoccupa per noi. C'è tanta brava gente in questo paese, ma è anche vero che non riusciamo a trovare un lavoro decente. Sempre in nero, sottopagati e senza la benché minima garanzia sociale. Oggi lavoro e domani chissà. Lo so che ci sono tanti italiani, giovani, che vivono situazioni simili alla nostra. Ma non capisco perché non fanno la “guerra”. Dobbiamo farla noi?” Ride con ironia Alì, è incredibile come riesca a sorridere con una storia personale così drammatica.

Mi offre il secondo tè e io lo accetto subito. Gli racconto che ho letto un libro ultimamente in cui si descrive un'usanza tipica delle sue terre. Dice cosi “La prima volta che bevi un tè con uno di noi sei uno straniero; la seconda, un ospite onorato; la terza, sei parte della famiglia”. Ride ancora Alì. Dice che forse funziona così in Pakistan, ma in Afghanistan è diverso. In un solo incontro ti possono anche offrirti dieci tè ma questo non significa che sei diventato uno della famiglia.

“Sto anche cercando di studiare in Italia, ho quasi finito le scuole medie. Sono molto contento, ma è dura. Per lavoro spesso devo andare anche fuori Roma e non riesco a frequentare quanto vorrei. Sai, in Afghanistan, l'istruzione è considerata molto importante. La maggior parte di noi fino a venti anni si dedica agli studi e non lavora”. Bussano alla porta, Alì interrompe il suo racconto. Sono arrivati gli altri ragazzi afghani con cui condivide la stanza al Forlanini.
Stesse storie quelle dei rifugiati afghani. E io sempre più, attimo dopo attimo, storia dopo storia, mi vergogno di essere italiana. Mi vergogno di questo Governo che dovrebbe rappresentarmi ma non lo fa, con tutte queste leggi discriminatorie, violazioni delle principali convenzioni internazionali, pacchetti sicurezza e atteggiamenti razzisti.
E mi vergogno anche di fare parte di quell'istituzione chiamata Chiesa, soprattutto considerando che Alì e i suoi amici vivono proprio all'ombra delle mura vaticane. Dal Papa non mi aspetto nulla. Di questi tempi è troppo impegnato a ripulire i corridoi della Chiesa dagli scandali e dai preti pedofili, ma noi cristiani dove siamo finiti? Quelli degli “Amiamoci gli uni con gli altri”?
E non è finita qui la mia vergogna. Io non posso credere che per entrare nel padiglione del Forlanini che li accoglie, e con il fine di non dare fastidio agli altri pazienti della struttura sanitaria, gli afghani siano obbligati a percorrere un cammino disegnato appositamente per loro, attraverso una struttura metallica che ricorda una gabbia per animali. Dopo aver visto quest'ultima barbarie mi sono persino vergognata di appartenere alla razza umana.

Si è festeggiato da poco il trentesimo anniversario della morte di Sartre, il filosofo padre dell'esistenzialismo, nonché intellettuale impegnato. Mi piace ricordare l'invito che egli faceva a tutti gli uomini del suo tempo: “Le parole sono azione e per lottare contro il male si deve agire”. Citando lui, vorrei che come esseri umani, indistintamente dal partito politico, dalla fede, razza e sesso, ci assumessimo la responsabilità di dare valore al viaggio di Alì e dei suoi amici afghani. Tutti noi possiamo fare la differenza!

Ringrazio i volontari di MEDU, Medici per i Diritti Umani, per l'impegno umano e professionale finalizzato alla tutela dei diritti umani degli afghani di Roma e per avermi permesso di conoscere Alì e i suoi amici ospiti “temporaneamente” dell'ospedale Forlanini.

1 Commento

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