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Scritto da nel Numero 69 - 1 Maggio 2010, Politica | 0 commenti

Tra business e libertà

Il Mezzogiorno d’Italia è da sempre terra dove gli stranieri che la raggiungono amano insediarsi stabilmente: la bellezza naturale, la gradevolezza del clima e il gusto del palato portano a miti consigli anche i barbari delle lande più desolate e lontane. Fin dai tempi dei Greci, attraverso i secoli degli Arabi, dei Normanni, Spagnoli, Francesi, Piemontesi fino all'attuale tempo dei lumbard di Bossi. Questa popolazione nordica, che tuttora si vanta di non aver mai visitato la bassa Italia, o si rifiuta di pronunciarne i dialetti in diretta tv, ha richiesto la candidatura a sindaco di Napoli. Un’operazione sopraffina per sviare l’attenzione dalle casseforti del Nord, al cui assalto sono partiti i nuovi poteri locali attraverso le nomine dei consiglieri delle Fondazioni  bancarie.
Il piano è chiaro: dirottare al Nord i soldi delle banche, tagliare i trasferimenti alle regioni meridionali con il federalismo fiscale (sempre che non ci si pieghi ai soliti “temporanei” aumenti di spesa) e la democrazia con i commissariamenti di chi sfora il budget. Un'utopia fondata sulla burocrazia, un progetto insostenibile per una nazione europea che con il rigore degli anni Novanta non è diventata colonia tedesca e che non vuole – parafrasando Mameli – ritrovarsi 'serva di Milano'.

Il successo della Lega è stato duplice: da un lato, in nome del solito fantomatico popolo padano di origine celtica, ha rivendicato democraticamente ampi settori di lottizzazione in puro stile leninista, dall’altro ha spaccato il Popolo delle Libertà, completando il commissariamento politico del premier, ormai vuoto simulacro di progetto liberale, sempre più esplicito nel limitarsi a combattere la propria battaglia (legale) personale.

Per chi da sempre milita nel proprio partito come gli ex missini immaginiamo risulti piuttosto fastidioso, se non politicamente incomprensibile, doversi trovare stranieri in casa propria, scacciati dalla propria linea politica di destra moderna ed europea dall'arrivo dei barbari padani nell'indifferenza del proprio leader, che con chiaro candore si fa gli affari propri al di fuori di militanze politiche e regole da rispettare.
Il problema della minoranza che fa capo al Presidente della Camera è che i suoi normali argomenti politici non vengono ritenuti appetibili per un elettorato ormai assuefatto ad una politica fondata sulla paura del diverso e l’odio verso i comunisti, come che il rispetto dei colori della pelle, dei gusti sessuali e della fecondazione eterologa siano roba da comunisti.

Il problema di Fini assomiglia a quello del Partito Democratico, con la differenza che mentre a destra si sta cercando di risolverlo, nel quartier generale del PD ci si guarda bene addirittura dal riconoscerlo: lo ripeteremo fino allo sfinimento, ma senza progetto politico la politica non esiste.
Per gli eredi delle tradizioni del Novecento, si tratta di trasformare in attualità, in proposte comprensibili a chi vive e vota nel 2010, un'idea archetipa di visione sociale, quella che non si può più chiamare ideologia e la cui assenza ha creato vistose crisi d'identità agli ex PCI.

Certo, chi come il sottoscritto continua diabolicamente ad aderire al PD non sembrerebbe così impossibile che Bersani dicesse ciò che sa.
Per esempio che per sviluppare il Meridione, così come la Padania, l'Europa o qualsiasi parte del mondo, bisogna alleggerire la burocrazia e rendere agevole l'accesso al lavoro legale; o che abolire le Province sarebbe una inutile e poco conveniente redistribuzione dei centri di potere, perchè i diritti di veto verrebbero sparpagliati tra gli 8000 Comuni che invece sarebbero essi sì da accorpare per un fattore 10 (mentre nulla toccherebbe le Prefetture e l'inefficienza dell'elefantica Amministrazione centrale); che per disingolfare la giustizia bisogna incentivare l'autotutela delle Pubbliche Amministrazioni e non ingolfare le questure con permessi di soggiorno che scadono ogni 6 mesi e centinaia (sì, centinaia) di migliaia di tessere del tifoso.
Si tratterebbe di spiegare che è diverso votare per Di Pietro, il cui protagonismo giudiziario ha segnato l'avvento della Seconda Repubblica berlusconiana, rispetto a un partito che dalla tradizione del movimento operaio abbia ereditato la migliore attitudine al progresso: il valore della libertà delle persone, espresso in una libertà diffusa perchè fondata sullo scambio e la partecipazione ai movimenti dei lavoratori e alle organizzazioni sociali integrate verticalmente (cioè il vero trait d'union tra la cultura socialista e cristiana), contro una visione della libertà come business del più forte, come disintegrazione dei legami sociali (la tv invece che lo stadio, i mille contratti di lavoro che tutelano solo chi il contratto già ce l'ha  invece che un equo contratto unico come quello proposto da Ichino), e che per raggiungere tutto questo serve una politica forte, libera dal giogo dei media e dei giudici protagonisti, libero dalle ristrettezza di una legge elettorale che impedisce ogni confronto reale.
Forse anche Bersani in un primo momento si troverebbe in minoranza, ma di certo si troverebbe dalla parte della ragione e potrebbe partecipare a costruire l'identità di una forza socialdemocratica del nuovo secolo.

Altrimenti si può sempre aspettare che il leghismo berlusconiano e il capitalismo caschino per le invasioni di nuovi barbari, che inevitabilmente saranno sempre più cattivi.

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