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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 70 - 1 Giugno 2010 | 0 commenti

Dietrologia sulla politica climatica europea







Coerenza e coordinamento sono requisiti necessari per una vera leadership nel campo delle politiche climatiche; ruolo a cui l’Unione ambisce da quasi venti anni.  Ma da dove nasce tale ambizione?

Nel processo di unificazione europea – spesso accusato di limitarsi ad una mera integrazione economica e commerciale – la politica ambientale ha sempre rivestito un ruolo periferico. Non azzarderemmo troppo nell’affermare che una politica ambientale europea vera e propria storicamente non sia mai esistita. Fino agli anni ’80, essa è stata piuttosto la risultante di politiche diverse, e a volte contrastantii; ad esempio, il commercio, la sicurezza o la salvaguardia dei consumatori. Si pensi alla Politica Agricola Comune, che per decenni assorbì gran parte del budget comunitario: il supporto all’agricoltura francese – conto salato presentato alla Germania dopo la Seconda Guerra – fu determinata da logiche politiche ben distanti dai principi andati affermandosi negli anni ’70, quando i rischi ambientali legati al nostro sistema di produzione e consumo cominciarono a divenire manifesti e politicamente rilevanti.  L’affermarsi di un’etica verde non sembra però sufficiente a spiegare il consolidamento della protezione ambientale come nuovo caposaldo della integrazione europea.

Avanziamo quindi la seguente tesi: la politica ambientale si è affermata in reazione al fallimento  di altre politiche fondamentali in cui logiche nazionalistiche hanno prevalso sull’interesse comunitario. Parliamo in particolare di tre aree strategiche: la politica estera, la politica fiscale e la politica energetica. In nome della sicurezza energetica, interessi nazionali hanno storicamente prevalso sulle regole comunitarie. Limitando l’ingresso nei mercati nazionali agli operatori stranieri (ma pur sempre europei), non solo si sono violati i principi comunitari di concorrenza, ma – di fatto – sono stati vanificati i risultati attesi dai processi di liberalizzazione ed integrazione dei mercati elettrici.

È dallo stallo di altre politiche che sembra emergere l’attuale politica ambientale europea, con i suoi connotati ideologici, quasi dogmatici. Andando per esclusione, quello ambientale è stato, prima, il tema su cui l’Europa si è trovata a ripiegare e, poi, il canale preferenziale attraverso cui la Commissione ha cercato di rimediare ai suoi fallimenti passati, creando consenso politico e legiferando anche in quegli ambiti che storicamente gli sono stati preclusi. Se incapace di adottare una posizione comune e condivisa nei rapporti con la Russia o sulle decisioni di intervento militare, la politica estera europea ha trovato un punto di convergenza nelle negoziazioni climatiche, tema politically correct e dagli orizzonti temporali più lunghi di quelli della politica. Ancora, in nome della protezione ambientale la Commissione è riuscita all’inizio degli anni ’90 ad avanzare il primo tentativo concreto di imporre una carbon tax sui Paesi Membri. Ma per paura che questa tassa divenisse un precedente che avrebbe facilitato l’intrusione della Commissione nelle politiche fiscali nazionali, Germania ed altri Paesi Membri ostacolarono questa manovra, favorendo l’adozione di un meccanismo regolatorio di tipo cap and trade – il mercato europeo dei permessi di emissione. Ma oggi, in concomitanza con la crisi greca, riemerge l’ipotesi di una politica fiscale europea e si torna a discutere negli uffici comunitari di border tax sulle importazioni di beni ad alto contenuto carbonico e di carbon tax europea sui consumi di combustibili. Infine, con l’approvazione del Pacchetto Clima alla fine del 2008, che sancisce l'adozione di obiettivi di riduzione emissiva e di sviluppo delle fonti rinnovabili, la Commissione è riuscita di fatto a condizionare e indirizzare le politiche energetiche nazionali, introducendo un punto di convergenza verso cui tutti i paesi dovranno tendere. 

La politica climatica è oggi il principale elemento catalizzatore in Europa e la leadership ambientale è prima di tutto una questione di leadership interna, della Commissione sugli stati membri. Se questo fosse vero, allora sarebbe più facile capire perché – nonostante il fallimento delle negoziazioni internazionali a Copenaghen – la Commissione continui imperterrita a spingere sull’acceleratore, puntando verso traguardi climatici più ambiziosi ed onerosi [1] che avrebbero come effetto indiretto l’accentramento del ruolo decisionale della Commissione in diversi campi amministrativi.  Davanti alle recenti congiunture economiche, questa visione “accentratrice” comunitaria rischia però di scontrarsi nuovamente con le logiche nazionali: in questa fase prolungata di stagnazione economica cresce il ruolo protezionista ed interventista dei governi nazionali. Arriviamo quindi al paradosso in cui le casse pubbliche sussidiano quegli stessi settori industriali vitali per l’occupazione e l’economia nazionale a cui le direttive europee impongono oggi i maggiori costi ambientali. Questo tiro alla fune non sembra però l’approccio più salutare per garantire l’equilibrio politico di cui oggi i mercati hanno bisogno per tornare a crescere. Coordinamento tra Commissione e governi nazionali e coerenza tra le diverse politiche economiche rimangono gli ingredienti necessari a garantire un perseguimento efficace degli obiettivi climatici (e non solo), oggi strada principale per il consolidamento del processo di integrazione politica ed economica, vera ragion d’essere delle nostre istituzioni.   

[1] nell’aprile 2010 la Commissione ha infatti proposto di abbassare il target emissivo, dal -20% al – 30% entro il 2020.  

 

 

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