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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 76 - 1 Febbraio 2011 | 0 commenti

Paese accogliente, ma giovani in fuga?

Se non bastano delle buone ricette a far uscire dalla crisi un sistema economico disorientato, può essere utile tornare allo studio della struttura e della dinamica demografica della popolazione per porre delle nuove “domande sociali” sul prossimo futuro.

Nel periodo 2002-2009, l'incremento della popolazione italiana, mediamente pari allo 0,7% all'anno e relativamente contenuto se comparato alle eccessive attese sullo sviluppo demografico, è spiegato dalla prevalenza dell'aumento del saldo migratorio (differenza tra il numero di immigrati e il numero di emigrati) rispetto al peggioramento del saldo naturale (differenza tra il numero di nati e il numero di morti). È ormai noto, da un lato, la sostanziale stabilità delle nascite insieme alla tendenza favorevole sulle mortalità, e, dall'altro lato, l'aumento tendenziale della presenza straniera in Italia, prescindendo dalla dinamica congiunturale (in particolare, quella riferita agli ultimi due anni secondo cui sarebbe diminuito considerevolmente il numero di immigrati) e da alcune variazioni annue di picco imputabili agli shock esogeni sul panorama internazionale.

Meno noti, però, risultano alcuni cambiamenti in atto sulla dinamica della popolazione, non ancora consistenti sul piano quantitativo, ma indubbiamente rilevanti per restituire una riflessione in chiave prospettica. Uno, in particolare, riguarda la ripresa degli spostamenti migratori non tanto e solo dal Mezzogiorno al Nord, ma soprattutto dalle regioni italiane (specie del Centro-Nord, dove i venti recessivi hanno soffiato maggiormente su tutto il sistema produttivo manifatturiero) verso l'estero. Per la tipologia del dato, che riguarda scelte di lunga durata formalizzate spesso dopo più o meno lunghi periodi di permanenza all'estero, non è possibile utilizzare la categoria dell'evento o del periodo, ma di fatto mediamente, ogni anno, il numero dei cancellati dalle nostre anagrafiche per essere iscritti in quelle estere cresce dell'8,1%.

Ciò potrebbe costituire un segnale precursore che la struttura della società italiana non stia solo diventando sempre più anziana, ma anche più orientata ad attirare la presenza straniera, funzionale a un mercato del lavoro scarsamente specializzato, e poco incline a trattenere quelle risorse autoctone, spesso giovani, che non vedono nel nostro Paese degli adeguati spazi di sviluppo e delle reali opportunità di valorizzazione delle proprie capacità professionali.

Una struttura della popolazione, questa proiettata di qualche lustro, che accelererà la crisi di uno stato sociale fortunatamente accogliente nei confronti dei nuovi arrivi stranieri – che mediamente necessitano maggiormente l'accesso ai servizi di base senza però ancora quella capienza fiscale per contribuire alla loro fornitura -, ma purtroppo finanziariamente non più sostenibile, almeno così come costruito oggi.

Una dinamica demografica, quella accennata sopra, che non creerà forti pressioni sul mercato del lavoro domestico e che, paradossalmente, risulterà accomodante, nel breve periodo, in un contesto di bassa crescita e di non possibilità di ritorno ai livelli occupazionali pre-crisi (almeno non prima dei prossimi 8 anni, secondo le stime dei principali istituti di ricerca economica). Ma che, ancora una volta, impatterà negativamente sul gettito statale, oltre che sull'immagine di un Paese fortemente gerontocratizzato. Sono traiettorie demografiche incerte, come quelle dello sviluppo, su cui sarebbe utile avviare subito un confronto vero sulle “risposte collettive” necessarie da mettere in campo. Almeno per distogliere lo sguardo, una volta, dallo specchietto retrovisore e costruire un futuro civile.

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