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Scritto da nel Internazionale, Numero 77 - 1 Marzo 2011 | 0 commenti

Orizzonti mediorientali – L'alba di una nuova era

SILVIA MACRI’ (DA BEIRUT) Il 25 gennaio 2011 segna una data importante: ricorderà nella storia il giorno in cui gli egiziani si sono ribellati a 30 anni d’oppressione, legge marziale, soprusi e corruzione. Le sorti del nuovo Egitto non sono però ancora chiare. Hosni Mubarak, dopo tre settimane di ostinata indifferenza al grido della gente di piazza Tahrir (in arabo significa liberazione, area simbolo della rivoluzione egiziana), ha lasciato il potere in mano all’esercito, ed è probabilmente andato a morire nella sua reggia di Sharm. Purtroppo l’eredità del suo lungo regime peserà sulla vita degli Egiziani per molto tempo, però ora possono finalmente alzare la testa con orgoglio. Pochi pensavano che sarebbero riusciti a sradicare un regime così forte e impenetrabile, che poteva godere dell’appoggio delle forze occidentali.

DARIO MACRI’ Ciò che ha maggiormente colpito gli osservatori, è stata la sorprendente organizzazione e tenacia del movimento di piazza Tahrir. Gli egiziani godevano, fino a poco tempo fa, della fama di gente piuttosto «sbadata» e «rassegnata», e comunque in maniera presuntuosa in occidente si pensava che il popolo arabo in generale non desiderasse democrazia e libertà. La rivoluzione ha dimostrato l’esatto contrario: la protesta ha tenuto duro nei momenti più delicati, ossia quando squadre della polizia in borghese, confondendosi nella folla, hanno agito da provocatori innescando violenti scontri. Inoltre, il popolo ha dato luogo ad una grande prova di civiltà proprio nella piazza della Liberazione, organizzando un sistema di raccolta dei rifiuti, distribuzione di cibo e coperte ed in cui le donne erano protagoniste, almeno quanto gli uomini. Insomma piazza Tahrir avanguardia civile del Medioriente.

S.M. L’Occidente ha spesso una visione distorta delle dinamiche mediorientali, purtroppo. C’è disinformazione, anche perchè il Medio Oriente (e i paesi del Nord Africa) è limitatamente associato al petrolio e alla questione palestinese. Ma è una regione complessa, il mondo arabo è variegato, e ogni Paese ha le sue peculiarità. Gli Egiziani, sì, hanno un’«intelligenza artistica», come mi è stato suggerito. E’ stato inaspettato il modo in cui si sono organizzati, pacificamente e non hanno intenzione di arrendersi finché non otterranno un chiaro processo democratico. Il mondo arabo ha sete di democrazia, e questo si vede chiaramente dall’ondata di dimostrazioni dal Nord Africa al Golfo, al Levante. Ma anche qui bisogna notare delle importanti differenze tra i vari Paesi, i diversi regimi e le strutture del potere. Se la «rivoluzione» araba (e questa denominazione prescinde dall’esito delle proteste nella regione) si è verificata soltanto ora, è perchè, a mio avviso, prima i tempi non erano maturi. Ciò non significa che gli egiziani, ad esempio, fossero contenti con Mubarak. L'aumento dei prezzi di cibo e carburante, e in generale il peggioramento della situazione economica con una differenza sempre più ampia fra ricchi e poveri, ha reso incontrollabile il bisogno di cambiamento. Sarebbe ingenuo pensare che questa rivoluzione sia venuta fuori dal nulla…

D.M. La rivoluzione non si fa con la «pancia piena». D’altronde da più parti si sottolineava la pericolosa tendenza dell’aumento del prezzo dei beni di prima necessità nei Paesi in via di sviluppo, in primo luogo del pane. Ora i soliti allarmisti islamofobi hanno dato per certo l’avvento dei fondamentalisti islamici al potere. Tuttavia la rivoluzione in Egitto e, prima, quella in Tunisia, potrebbero segnare la fine dello schema teorico che dava due sole possibilità di governo per i Paesi arabi: teocrazia islamica o dittatura laica.

S.M. La rivoluzione egiziana è stata una rivoluzione del popolo; senza distinzioni di fede, ha visto cristiani e musulmani fianco a fianco nell’unico obiettivo di liberarsi di un regime autoritario. Non avendo assunto connotati religiosi d’alcun tipo, probabilmente ha spiazzato coloro che associano inevitabilmente l’Islam al mondo arabo e viceversa, senza considerare che i fondamentalisti islamici costituiscono una minoranza, ammesso che ci si trovi d’accordo sulla definizione di fondamentalismo islamico. Condivido l’analisi di Olivier Roy (Le Monde): parlando di «rivoluzione post-islamista», egli afferma che questa nuova generazione non è interessata all’ideologia, ma chiede innanzitutto di liberarsi dalla dittatura e di avviare un processo democratico. Gli sviluppi in Tunisia e in Egitto hanno dimostrato che ogni previsione sia quantomeno azzardata. Esistono tuttavia diversi scenari possibili e, senza dubbio, un regime islamista è fra i più temuti in Occidente. Ma, come sostiene Roy, è in atto un’evoluzione dei movimenti politici islamici, che non sono più fautori di un modello economico e sociale alternativo.

D.M. La reazione dell’Unione Europea alle vicende del mondo arabo appare blanda. Una grande delusione per chi (ancora) credeva in un’Europa reale promotrice dei diritti civili, politici, sociali e, in generale, di valori etici importanti. I singoli Paesi affacciati sul Mediterraneo, del resto, sembrano preoccupati di ben altre questioni. La Spagna teme un’ondata migratoria attraverso lo Stretto di Gibilterra ed è preoccupata per la stabilità delle sue città in terra nordafricana, Ceuta e Melilla.  La Francia è condizionata da un legame fin troppo stretto con i dittatori caduti e con quelli che vacillano (il ministro degli Esteri francese, Michele Alliot-Marie, si è dimessa a seguito dello scandalo suscitato dai suoi rapporti con l’entourage del deposto dittatore Tunisino Ben Ali) e paga altresì il fallimento dell’Unione per il Mediterraneo, cui cofondatore e presidente accanto a Sarkozy è niente di meno che Mubarak. L’Italia, infine, ha una questione araba tutta sua: Ruby. E gira la testa dall’altra parte: il giorno delle dimissioni di Mubarak sulle reti Mediaste e Rai neppure un collegamento o un approfondimento sui fatti. I media e il governo si sono accorti dell’ondata di cambiamento allorché i tumulti sono sbarcati in Libia.

S.M. Nelle relazioni tra Paesi lo status quo può rivelarsi come la migliore strategia da scegliere: un’apparente stabilità interna che possa tenere a bada i nemici del sistema internazionale. Lo si è visto proprio nella «non-reazione» dell’Europa e degli Stati Uniti finché non è diventato chiaro che stavolta gli egiziani non avrebbero lasciato la piazza se non fossero stati ascoltati. Tensioni regionali e interruzione del flusso commerciale che passa attraverso lo Stretto di Suez, per non parlare dell’alleato Israele affiancato da un altro potenziale nemico, sono dei timori reali che a volte «giustificano» la reazione dei nostri governi. Ora che l’ondata di proteste ha interessato un’area sempre più ampia e tocca alleati e partner commerciali importanti come la Libia, i rapporti tra l’Occidente e il mondo arabo d
ovranno essere profondamente rivalutati.

D.M. Appare confuso l’atteggiamento degli Stati Uniti: dapprima titubante, il governo americano si è poi apertamente schierato col popolo egiziano e, in seguito, con tutto il popolo arabo in rivolta. Ma se tale atteggiamento può dispiegarsi in maniera disinvolta nel caso iraniano – vista l’ostilità reciproca tra Washington e Teheran – non altrettanto si può dire per le proteste in Yemen e, soprattutto, Bahrein, dove il legame con la monarchia assoluta degli Al Khalifa è strettissimo (il Bahrein ospita il quartier generale della V flotta USA).

S.M. Gli Stati Uniti si trovano, in effetti, in una posizione delicata. Israele è il principale alleato nella regione, e i suoi interessi vanno in qualche modo salvaguardati. D’altronde non va dimenticata la presenza dell’Iran sull’altra sponda del Golfo, considerando che la Repubblica Islamica è stata spesso accusata di fomentare le rivolte sciite in Paesi come il Bahrein e la stessa Arabia Saudita. Dopo la strategia fallimentare di Bush, bisognerà soprattutto osservare come Obama e la sua amministrazione decideranno di relazionarsi al nuovo ordine arabo che potrebbe crearsi.

D.M. Nel frattempo, l’ondata rivoluzionaria non si ferma e travolge la Libia, con cui l’Italia ha per ovvi motivi storici rapporti particolari nonché interessi economici rilevanti, soprattutto ma non solo nel campo dell’energia. Il dittatore Gheddafi sta tentando di reprimere la rivolta con una ferocia inaudita e gli scontri stanno precipitando in una guerra civile di difficile soluzione a causa della complessa conformazione in tribù della Repubblica libica nonché per la rivoltante testardaggine di un Capo di Stato fallito. Il Governo italiano – che in passato ha concesso al Colonnello una serie di «pagliacciate» sul suolo romano che vanno ben oltre la cosiddetta realpolitik – registra l’ennesima brutta figura condannando le violenze del regime del Colonnello con notevole ritardo rispetto al resto della Comunità internazionale, che del resto appare impotente di fronte agli atteggiamenti isterici di Gheddafi. La situazione è ancora confusa ed in continua evoluzione. I nostri governanti sono preoccupati anche per la fornitura energetica che importiamo da Tripoli. Glissiamo sulla solita strategia della paura che deve terrorizzare gli italiani dell’imminente esodo biblico di immigrati verso le nostre coste.

S.M. Credo che la situazione in Libia sia sfuggita di mano un po’ a tutti, e mette in imbarazzo quei leader che hanno fatto affari con Gheddafi. Per quanto riguarda gli approvvigionamenti di materie prime dal sottosuolo libico, le compagnie petrolifere hanno dovuto effettuare tagli alla produzione ed è possibile che debbano lentamente arrestarla in attesa che la situazione nel Paese torni ad un minimo di stabilità. Nel breve e medio periodo, però, la perdita del petrolio e gas libico non costituisce un grosso problema, perchè con la fine della stagione invernale si riduce la richiesta di forniture di gas, mentre il petrolio può essere sostituito da altri fornitori presenti sul mercato.

D.M. Chi avrebbe mai pensato che il coraggioso gesto di darsi fuoco di Mohamed Buazizi, fruttivendolo di strada tunisino, avrebbe innescato un simile, si spera splendido, stravolgimento nel mondo arabo?

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