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Scritto da nel Arte e Spettacolo, Numero 77 - 1 Marzo 2011 | 0 commenti

Tanzt, Tanzt

« tanzt, tanzt, sonst sind wir verloren »

Il paradosso della comunicazione contemporanea: il semplice ci risulta complicato.

Troppi sedimenti si sono accumulati sulla pelle e ne minacciano la sensibilità.

Impariamo a parlare una lingua, ad esprimere le più complesse idee attraverso combinazioni di parole sempre diverse ma abbiamo dimenticato che, prima di tutto, siamo in grado di parlare dei linguaggi universali.

La danza è uno di questi.

Febbraio 2011, Berlino, Berlinale, Wim Wenders, “PINA”: un film per Pina Bausch, danzatrice e coreografa tedesca di fama internazionale.

Idee sfuse in scene sparse.

Siamo nel “Cafè Muller”1: la stanza riempita di tavoli ma soprattutto di sedie, numerose sedie.

Una donna e la sua proiezione danzano un intimo ballo liberatorio. Nella spontaneità e nel coinvolgimento di tale danza, la donna sembra non badare alla dimensione spaziale, cieca si muove nella stanza e il suo ballo non viene minimamente intralciato: un uomo anticipa i suoi passi e con meticolosa premura provvede a rimuovere sistematicamente le sedie dalla superficie che sarà presto il luogo dove condurrà il suo movimento.

Paesaggio lievemente collinare, ore pomeridiane di una soleggiata giornata di maggio.

Una donna prende un po' di rincorsa e inizia a comporre archi giocando a salire sul bordo superiore degli schienali delle sedie — disposte l'una dietro l'altra — per poi ridiscenderle facendole capovolgere. Un uomo subito dopo le raccoglie e le risistema di modo tale che il suo gioco non abbia fine.

Donna dai lineamenti orientali, dai lunghi capelli setati neri, vestita di un elegante abito rosso, mostra la sua forza mascolina — che in realtà non le appartiene — per poi cullarsi in un giro aereo sostenuta dalle solide braccia di colui che prima si celava dietro di lei, ingannando l'apparenza.

Un altra donna in una stanza vuota è attaccata ad una corda e cerca disperatamente una via di fuga.

Un uomo in tutù si mostra nella sua imbarazzante estraneità del suo aspetto.

Ritorniamo al “Cafè Muller”.

Un uomo ed una donna si stringono in un forte abbraccio. Un attimo dopo un altro uomo interviene a separare quella stretta simbiotica e detta le “leggi” per la loro posizione: con una serie di gesti riconduce la donna in braccio all'uomo che abbracciava. Il corpo della donna sembra esanime. In un attimo viene fatto scivolare per terra dall'uomo che la sostiene. La donna allora si rialza prontamente e riabbraccia l'uomo che l'ha fatta scivolare.

La scena si ripete in loop e man mano acquista velocità sino ad automatizzarsi. A questo punto non c'è più bisogno di un intervento esterno: il “ribelle” si è autodisciplinato.


Vergogna, dolore, gioia, tristezza, disagio, incapacità di mostrarsi spontanei, automatizzazioni… i ballerini della Bausch — e Pina stessa — traducono in danza i loro sentimenti, le loro paure, le loro paranoie, in modo del tutto personale l'uno dall'altra, mostrando un estremo bisogno di esprimersi, di tirar fuori l'impronunciabile perché troppo intenso da poter essere sorretto da aeree parole. Gridano aiuto, vogliono essere cullati, sorretti, viziati, confortati, completati da qualcun altro.

A rendere il poetico più irreale e leggiadro, l'uso del 3D ci invita a sbirciare la rotondità del movimento.

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1 Opera della Bausch del 1978.

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