Fuori dal tunnel (del divertimento)
Nonostante, a livello nazionale, gli organi ufficiali inizino a segnalare dei timidi segnali di ripartenza negli ultimi mesi del 2013, ogni giorno vengono rilasciati dati che descrivono la pesantezza della situazione e soprattutto che spostano in avanti la “fine del tunnel”.
Con le due ondate recessive (quella del biennio 2008-2009 e quella iniziata a metà del 2011), lo standard di vita degli italiani è arretrato fortemente: il potere d’acquisto delle famiglie è caduto sotto i livelli che si registravano ben quattordici anni fa (1999), all’avvio della moneta unica; i consumi per abitante sono scesi solo leggermente meno, ma nel 2012 hanno raggiunto i livelli del 2000. La minore flessione della spesa delle famiglie si è tradotta in marcata compressione dei risparmi: non si tratta del risultato di uno smussamento nel tempo di una diminuzione dei redditi, considerata transitoria e in attesa di tempi migliori, ma al contrario di vera e propria difficoltà, o addirittura impossibilità ad accantonare denaro, data la caduta persistente dei redditi reali e la natura incomprimibile di alcune spese necessarie alla vita di una famiglia. La quota di nuclei familiari che riescono a risparmiare (oggi meno del 10%, secondo Istat) si è marcatamente ridotta negli ultimi anni, mentre si è impennata dal 2011 la quota (oggi oltre il 30%, secondo Istat) di coloro che, per fare fronte alle spese quotidiane, intaccano quanto hanno messo da parte o ricorrono anche a debiti.
Anche per chi riesce a risparmiare, i giudizi negativi sulle prospettive economiche ed occupazionali future inducono a modificare il proprio “reddito permanente” (ovvero quel reddito complessivo atteso da un individuo lungo l’arco della sua vita) e dunque a modificare i comportamenti (presenti e futuri) di consumo e investimento. Questo è il motivo per cui, alla base della prolungata fase attuale di depressione c’è una carenza di domanda aggregata (spesa), in particolare di domanda interna.
Quella delle famiglie è la parte dell’economia in cui, oggi, si sentono in modo più acuto gli effetti della crisi economica. Su di essa, tuttavia, ricadono anche le fortissime difficoltà sperimentate dalle imprese. Non solo di quelle che si rivolgono al mercato nazionale e che subiscono in pieno l’impatto della caduta della domanda interna, ma anche delle imprese esportatrici. Sono rari, infatti, i casi degli esportatori “puri”, che hanno nei mercati esteri il preponderante, se non esclusivo, sbocco delle loro vendite. Nella maggioranza delle imprese esportatrici il mercato nazionale rappresenta la quota maggioritaria del fatturato. In tal senso, allora, il crollo delle vendite interne, oltre a mettere in seria difficoltà un sistema locale legato al commercio e ai servizi, potrebbe avere nei prossimi mesi un effetto avverso sulla competitività di molte imprese esportatrici.
Anche gli ultimi dati ufficiali sul mercato del lavoro italiano sono impietosi: a gennaio il tasso di disoccupazione si attesta all’11,7% (livello mai toccato dalla fine degli anni ’90), in aumento di 0,4 punti percentuali rispetto a dicembre e di 2,1 punti nei dodici mesi; il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è pari al 38,7%, in aumento di 1,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e in aumento di 6,4 punti rispetto allo scorso anno.
In apparente contraddizione, il numero degli occupati (22 milioni 723mila) risulta in diminuzione solo dello 0,5% rispetto a novembre (-97 mila) e dell’1,2% su base annua (-310 mila). Tuttavia, quello che si registra è il cosiddetto fenomeno del “lavoratore addizionale”, ovvero di un “esercito” di persone (giovani, donne, ex lavoratori autonomi, etc) che ora cercano un’occupazione anche per compensare il calo del potere d’acquisto familiare, a fronte di un mercato del lavoro che registra una tenuta gli occupati attuali ma che non è in grado di assorbirne di nuovi.
È una situazione di incertezza che risente, più del passato, delle dinamiche sovra-locali e in cui i fattori congiunturali (“passeggeri”), se prolungati nel tempo, rischiano di confondersi o addirittura trasformarsi in danni strutturali (“persistenti”) all’economia locale e al capitale sociale di un territorio.
Di fronte allo scenario descritto, allora, non sorprende tanto il peggioramento della fiducia dei consumatori e delle imprese sul clima economico generale, quanto piuttosto come il sentimento più diffuso, che secondo il Censis accomuna il 52,3% degli italiani, sia la rabbia. Dato, questo, che evidenzia la necessità di un’agenda economica per la “ripresa” alla pari di un’agenda sociale che faccia i conti necessariamente con i “lasciti” di una crisi persistente.